Nom de la loi
Legge Aelia Sentia sulle affrancazioni
Date
4
Rogator
Sex. Aelius Catus (RE 35) et C. Sentius Saturninus (RE 10)
Thèmes
Sources
Riccardi Frg., [RS., I n. 34] col. II, l. 1-4(a. 62)
Restitutions de H. A. Sanders, « A Birth Certificate of 138 A. D. », Aegyptus, 17, 1937, 233-234). (a. 138).
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Commentaire
Sommaire
1. - Premessa generale
-
2. - Modus manumittendi
-
3. - Iura patronatus
-
4. - Modifiche, integrazioni, abrogazioni di parti della legge
1. - Premessa generale
[a] Fatta rogare da Augusto ai consoli ordinari del 4 a.C., nell’ultimo scorcio di un principato caratterizzato dal coinvolgimento tecnico e forse anche politico del senato nella produzione legislativa (cfr. rispettivamente Ph. Moreau, «Le commentarius de la lex Troesmensium [table B l. 4-11] et la réforme augustéenne de la procédure législative», in E. Chevreau – C. Masi Doria – J.M. Rainer [eds.], Liber Amicorum. Mélanges en l’honneur de J.-P. Coriat, Paris, 2019, 656-660 e A. Dalla Rosa, «Gli anni 4-9 d.C. : riforme e crisi alla fine dell’epoca augustea», in S. Segenni (ed.), Augusto dopo il bimillenario. Un bilancio, Milan, 2018, 89), la lex Aelia Sentia ridefinì condizioni ed effetti delle manomissioni civili, insieme a una serie di doveri reciproci tra patrono e liberto. Dato il cospicuo numero di disposizioni che si possono attribuire alla legge – senz’altro complice il fatto di essere uno dei pochi statuti di diritto privato sopravvissuto alla sistemata delegificazione operata dai compilatori del Digesto (cfr. D. Mantovani, «Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi», in J.-L. Ferrary [a c. di] Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana, Pavia, 2012, 751-755) – il provvedimento è stato spesso rappresentato come un «code de la libertinité» (Lemonnier [1887] 21; Jaubert [1965] 5; López Barja de Quiroga [2007] 76). Questa rappresentazione è tuttavia fuorviante. Da un lato, se si guarda all’estensione dei commentari ad legem Aeliam Sentiam scritti in età severiana da Paolo (tre libri) e Ulpiano (quattro) e la si compara all’estensione dei commentari coevi ad legem Iuliam et Papiam (dieci per Paolo, venti per Ulpiano), è lecito supporre che il testo della lex Aelia Sentia non dovesse essere dei più estesi. Dall’altro lato, si evince dal contenuto delle misure ricostruibili che il provvedimento non ridefinì affatto le regole portanti di manomissioni e patronato (vd. rispettivamente ai §§ 2.1 e 3.1), né recepì in un testo unico le tante disposizioni pertinenti introdotte attraverso altre fonti normative (si pensi soltanto ai §§ 140 e 150-153 dell’editto pretorio [secondo la ricostruzione di O. Lenel, Das Edictum perpetuum. Ein Versuch zu dessen Wiederherstellung3, Leipzig, 1927, 352 ss.], per non dire della recentissima lex Fufia Caninia). E’ vero però che la lex Aelia Sentia incise con misure significative su vari aspetti della materia, che già gli antichi riportavano ai due poli dei modus manumittendi (per usare un’espressione comune alle fonti letterarie e giuridiche: cfr. Suet., Aug., 40, 3Magni praeterea existimans sincerum atque ab omni colluuione peregrini ac seruilis sanguinis incorruptum seruare populum, et ciuitates Romanas parcissime dedit et manumittendi modum terminauit. Tiberio pro cliente Graeco petenti rescripsit, non aliter se daturum, quam si praesens sibi persuasisset, quam iustas petendi causas haberet; et Liuiae pro quodam tributario Gallo roganti ciuitatem negauit, immunitatem optulit affirmans facilius se passurum fisco detrahi aliquid, quam ciuitatis Romanae uulgari honorem., Gaius, Inst., 1, 40Cum ergo certus modus manumittendi minoribus XX annorum dominis per legem Aeliam Sentiam constitutus sit, evenit, ut qui XIIII annos aetatis expleverit, licet testamentum facere possit et in eo heredem sibi instituere legataque relinquere possit, tamen si adhuc minor sit annorum xx, libertatem servo dare non potest. e Gaius, Inst., 1, 42Praeterea lege Fufia Caninia certus modus constitutus est in servis testamento manumittendis.) e degli iura patronatus. Tale polarizzazione trova la sua espressione più chiara nel riepilogo di Dio, 55, 13, 7: πολλῶν τε πολλοὺς ἀκρίτως ἐλευθερούντων, διέταξε τήν τε ἡλικίαν ἣν τόν τε ἐλευθερώσοντά τινα καὶ τὸν ἀφεθησόμενον ὑπ’ αὐτοῦ ἔχειν δεήσοι, καὶ τὰ δικαιώματα οἷς οἵ τε ἄλλοι πρὸς τοὺς ἐλευθερουμένους καὶ αὐτοὶ οἱ δεσπόται σφῶν γενόμενοι χρήσοιντο. E’ però verosimile che anche i i commentari di Paolo e Ulpiano, distribuissero la materia secondo la medesima scansione (vd. oltre al § 3.1).
Sul piano degli iura patronatus, la legge diede forma giuridica inedita a regole di comportamento profondamente radicate nel costume romano. Per la prima volta (vd. in part. §§ 3.2 lett. [a] e 3.5 lett. [a]), l’ingratitudine del liberto e, reciprocamente, il disinteresse del patrono verso una sua eventuale indigenza furono sanzionati con misure (anche di accertamento) specifiche. E con sanzioni più pregnanti (vd. in part. §§ 3.3 lett. [b-c] e 3.4 lett. [d]) si ribadì il disvalore di specifici comportamenti vessatori, personali e patrimoniali, come l’imporre al manomesso il giuramento di non sposarsi o di convertire in denaro l’obligatio operarum.
Sul piano invece dei modus manumittendi, la legge, se non le introdusse, di certo ampliò in modo significativo forme di libertà degradata che andavano a rompere un binomio tradizionalmente inscindibile, quello cioè tra manumissio e civitas. Con la lex Aelia Sentia, le condotte dello schiavo e le sue relazioni personali con il padrone divennero per la prima volta una discriminante per ottenere, insieme con la libertà, anche la cittadinanza romana. Per i manomessi che in schiavitù si fossero macchiati di determinate colpe venne infatti sancita l’esclusione dal praemium civitatis; esclusione che fu invece voluta solo in modo relativo (data la previsione di sanatorie ed eccezioni) per gli schiavi manomessi prima che essi stessi o i loro manomissori avessero raggiunto le età minime rispettive, fissate dalla legge. Alle persone manomesse in assenza delle condizioni richieste la legge stessa attribuiva, a seconda del caso, status differenti, i cui estremi andavano dal mantenere il manomesso in schiavitù (vd. § 2.3.1 lett. [a]), al riconoscergli una libertà peregrina assolutamente penalizzante, nota come dediticia libertas (vd. § 2.2.1). Più incerto è se - nel mezzo di questo arco ideale – si debba alla lex Aelia Sentia l’invenzione anche della cd. libertas Latina o non piuttosto l’implementazione delle sue fattispecie oppure ancora il riconoscimento al manomesso di una semplice libertà di fatto (vd. in part. § 2.4.1 lett. [c-d]). I dubbi in proposito dipendono dalle difficoltà di datare con precisione il provvedimento a cui le fonti ricollegano l’introduzione della libertas Latina, la legge cioè Iunia (Norbana: per i problemi che pone la denominazione stessa di quest’altra legge, vd. notice n° 490, § 3.2), la quale non si può perciò dire con certezza se abbia preceduto o seguito la lex Aelia Sentia.
[b] Che la lex Aelia Sentia sia stata il primo provvedimento comiziale a rompere il secolare binomio manumissio – civitas o che essa, seguendo la lex Iunia, abbia invece solo ampliato il novero delle libertà degradate, è comunque un dato di fatto che le sue misure incisero in modo dirompente e duraturo sugli assetti della società romana. In età adrianea, è concentrandosi sulle norme relative ai modus manumittendi (e forse nemmeno su tutte loro: vd. § 2.3.2 lett. [a]) che Svetonio riassumerà l’azione legislativa di Augusto, indicandone come obiettivo l’incorruttibilità del popolo romano (cfr. Suet., Aug., 40, 3: Magni praeterea existimans sincerum atque ab omni colluvione […] servilis sanguinis incorruptum servare populum, […] manumittendi modum terminavit). E in età costantiniana le regole che inibivano l’accesso alla Ῥωμαίων πολιτεία, di quegli schiavi che pure i padroni avrebbero voluto ricompensare con tale beneficio, erano ancora tanto stringenti da giustificare le lodi per quei principi che avessero provveduto a mitigarne gli effetti (così Sozom., Hist., 1, 9, 6Εἰς τοῦτο δέ με προελθόντα γραφῆς ἄξιον μὴ παραλιπεῖν τὰ νενομοθετημένα ἐπ’ ὠφελείᾳ τῶν ἐν ταῖς ἐκκλησίαις ἐλευθερουμένων. ὑπὸ γὰρ ἀκριβείας νόμων καὶ ἀκόντων τῶν κεκτημένων πολλῆς δυσχερείας οὔσης περὶ τὴν κτῆσιν τῆς ἀμείνονος ἐλευθερίας, ἣν πολιτείαν Ῥωμαίων καλοῦσι, τρεῖς ἔθετο νόμους ψηφισάμενος πάντας τοὺς ἐν ταῖς ἐκκλησίαις ἐλευθερουμένους ὑπὸ μάρτυσι τοῖς ἱερεῦσι πολιτείας Ῥωμαϊκῆς ἀξιοῦσθαι., a proposito del regime speciale acccordato da Costantino alla manumissio in ecclesia: vd. meglio §§ 4.1 e 4.2 lett. [b]).
[c] L’impatto sociale della libertas degradata, introdotta (o ampliata) dalla lex Aelia Sentia ha giocato un ruolo di primo piano anche per le valutazioni moderne del provvedimento, i cui scopi, nella scia di Svetonio, sono stati molto spesso desunti dalle sole norme che filtravano l’accesso alla civitas Romana. Turbato da un aumento della cittadinanza(potenzialmente) incontrollato, Augusto avrebbe regolato la cosa mirando in ultima analisi «at the restoration and preservation of social stability» (così per es. J. Gardner, Being a Roman Citizen, London, 1993, 39; bibl. meno recente in Tilson [1986] 261-267), con lo scopo specifico, secondo alcuni, di mantenere una coesione anche identitaria del corpo civico (a fronte di una massa di potenziali affrancati estranei in gran numero alla cultura e ai valori romani: così per es. H. Klees, «Die römische Einbürgerung der Freigelassenen und ihre naturrechtliche Begründung bei Dionysios von Halikarnassos», in Laverna, 13, 2002, 112; un accenno in questo senso da ult. anche in Rainer [2021] 95-96), e secondo altri volendo far fronte anche a necessità più prosaiche, come quella di contenere la spesa per le frumentationes (sul presupporto che anche i cittadini di condizione libertina ne avessero diritto: cfr. López Barja de Quiroga [2007] 79-80).
In realtà, si vedrà nel dettaglio che le condizioni cui la legge subordinava l’approdo alla iusta libertas si possono ricondurre a imperativi prima di tutto etici, vale a dire che il praemium della iusta libertas non si attribuisse alla leggera (§ 2.3.2) e fosse riservato a persone di comprovabile merito (§§ 2.2.2 e 2.4.3). Oltretutto, è in una dimensione innanzitutto etica che si deve inquadrare l’intero altro polo degli iura patronatus, i cui capita imponevano al patrono sia di non abbandonare il manomesso al suo destino (§ 3.2 lett. [c]) sia di non approffittarsene economicamente (§§ 3.3 lett. [d] e 3.4 lett. [d]) e, reciprocamente, rendevano cogente il rispetto quasi filiale dovuto al manomissore (§ 3.5 lett. [a]). E’ dunque assolutamente possibile che la legge nel suo complesso – e cioè tanto per le norme dedicate al ‘prima’ dell’affrancazione (modus manumittendi) quanto per le disposizioni relative al ‘dopo’ (iura patronatus) – fosse espressione di uno stesso principio di fondo, volto ad affermare l’importanza e il valore della manomissione, come atto al tempo stesso individuale e civico. Il che farebbe della lex Aelia Sentia un capitolo – come vogliono alcuni (cfr. per es. da ult. Mouritsen [2016] 409) – della cd. legislazione morale di Augusto.
[d] Più ancora che il problema degli obiettivi e delle finalità della legge, un aspetto che lo stato della documentazione rende pressoché inaccessibile ai moderni è però quello, a cui si è già fatto cenno, di come le sue norme si intersecassero alla realtà della libertas Latina e alle relative disposizioni della lex Iunia.
Che una intersezione si desse sul piano del modus manumittendi è ampiamente attestato da una serie di testi pregiustinianei, primi fra tutti il manuale di Gaio e il Liber singularis regularum di (o dello pseudo) Ulpiano (sui problemi di attribuzione vd. da ult. E. Daalder, «The Ulpianic Liber singularis regularum or Tituli ex corpore Ulpiani», in D. Mantovani – M. Wibier [eds.], The Circulation, Use, and Reception of Classical Juristic Literature in Late Antiquity [forthcoming]). Anche in ragione della loro natura istituzionale, le fonti in questione presentano tuttavia un quadro sinottico e sincronico del regime prodotto dalle due leggi, vigente tra gli Antonini e i Severi (cfr. già Vangerow [1833] 15 e Cantarelli [1883] 28, nonché in tempi più recenti Tilson [1986] 241-242). Esse non permettono perciò di stabilire se la lex Iunia abbia preceduto o seguito la lex Aelia Sentia; sicché resta aperto il problema di sapere se i capita di quest’ultima fossero formulati presupponendo l’esistenza o meno della classe dei liberti Latini (vd. in part. ai §§ 2.2.3 lett. [b], 2.4.1 lett. [c], 2.5.2 lett. [c1] e 2.6.3 lett. [c]).
Con riguardo poi ai capita relativi agli iura patronatus la base di partenza testuale si rivela, in questa prospettiva, ancora più fragile. Alle disposizioni in questione le fonti pregiustinianee non dedicano infatti pressoché alcuna attenzione. Sicché tutto si riduce ai brani giurisprudenziali e alle costituzioni imperiali passate attraverso una selezione, quella giustinianea, a monte della quale sta però l’abolizione della libertas Latina (vd. notice n° 490, § 4.4). Per questa via è perciò impossibile sapere se e in che misura la seconda parte della lex Aelia Sentia si applicasse anche ai Latini Iuniani, e ai moderni è lasciato soltanto di porre il problema e poco più (vd. in part. ai §§ 3.3 lett. [e], 3.4 lett. [e], 3.5 lett. [d]).
2. - Modus manumittendi
2.1. - Premessa
Il nucleo centrale delle norme sui modus manumittendi ruota intorno a tre presupposti che la lex Aelia Sentia aggiungeva ai normali requisiti già previsti dal ius civile perché le manomissioni avessero piena efficacia. I presupposti in questione consistevano in una specchiata condotta dello schiavo affrancato (vista però in negativo, ossia come assenza di una serie ben definita di cattive condotte), nonché nel possesso di una età minima (vent’anni) da parte del manomissore e di una età minima (trent’anni) da parte del manomesso. A contorno di questo nucleo centrale la legge fissava alcune norme complementari. Esse servivano, da un lato, a precisare i dettagli della particolare procedura da seguire per essere autorizzati a manomettere prima del raggiungimento dell’età legale, dall’altro lato, a regolarizzare la posizione degli schiavi minorenni manomessi senza autorizzazione, da un altro lato ancora, a organizzare le dichiarazioni di nascita funzionali alla predetta regolarizzazione. Un quarto presupposto, sempre aggiunto dalla lex Aelia Sentia, si riferiva al fatto che l’affrancazione non pregiudicasse economicamente chi vantava legittime aspettative sul patrimonio del manomissore. Si tratta tuttavia di un presupposto molto distante dai precedenti, sia per la netta diversità di ratio sia per la minor carica innovativa (attesi i precedenti forniti dall’editto del pretore, che la legge andava semplicemente ad integrare).
La differenza di peso tra i primi tre presupposti introdotti dalla lex Aelia Sentia e il quarto è riflessa anche dai riassunti della legge proposti nelle fonti letterarie. La centralità delle norme legate all’età minima di manomissori e manomessi è colta da Dio, 55, 13, 7πολλῶν τε πολλοὺς ἀκρίτως ἐλευθερούντων, διέταξε τήν τε ἡλικίαν ἣν τόν τε ἐλευθερώσοντά τινα καὶ τὸν ἀφεθησόμενον ὑπ’ αὐτοῦ ἔχειν δεήσοι, καὶ τὰ δικαιώματα οἷς οἵ τε ἄλλοι πρὸς τοὺς ἐλευθερουμένους καὶ αὐτοὶ οἱ δεσπόται σφῶν γενόμενοι χρήσοιντο.: διέταξε τήν τε ἡλικίαν ἣν τόν τε ἐλευθερώσοντά τινα καὶ τὸν ἀφεθησόμενον ὑπ’ αὐτοῦ ἔχειν δεήσοι. Sulla pessima condizione giuridica attribuita agli schiavi di condotta turpe insiste invece Suet., Aug., 40, 4Magni praeterea existimans sincerum atque ab omni colluuione peregrini ac seruilis sanguinis incorruptum seruare populum, et ciuitates Romanas parcissime dedit et manumittendi modum terminauit. Tiberio pro cliente Graeco petenti rescripsit, non aliter se daturum, quam si praesens sibi persuasisset, quam iustas petendi causas haberet; et Liuiae pro quodam tributario Gallo roganti ciuitatem negauit, immunitatem optulit affirmans facilius se passurum fisco detrahi aliquid, quam ciuitatis Romanae uulgari honorem.: hoc quoque adiecit, ne vinctus umquam tortusve quis ullo libertatis genere civitatem adipisceretur). Sempre Suet., Aug., 40, 3 evoca poi, in termini generali il peculiare meccanismo costruito a contorno dei nuovi presupposti introdotti dal legislatore, per cui la mancanza del singolo requisito si traduceva ora nella preclusione della libertas tout court (e dunque nella nullità della manomissione) ora nella preclusione della sola iusta libertas, quella a cui faceva cioè da pendant l’ingresso del manomesso nella civitas Romana (servos non contentus multis difficultatibus a libertate et multo pluribus a libertate iusta removisse, cum et de numero et de condicione ac differentia eorum, qui manumitterentur, curiose cavisset [scil. Augustus]).
2.2. - Schiavi di condotta turpe
2.2.1. - Capita
[a] Al netto di una complessiva incertezza sull’irdine interno dei capita legis (la cui numerazione non ha lasciato alcuna traccia nelle fonti, giuridiche e non), dai contenuti degli escerti superstiti del primo e del secondo libro del commentario di Ulpiano, raccolti da O. Lenel, Palingenesia Iuris Civilis, II, Leipzig, 1889, col. 930, sembrerebbe di poter desumere che la lex Aelia Sentia interevnisse come prima cosa sulle condizioni degli schiavi di condotta turpe manomessi. Nello specifico, la legge stabiliva che gli schiavi puniti per cattiva condotta, dagli attuali come da precedenti proprietari, laddove fossero stati manomessi (e con dizione verosimilmente generica, senza cioè precisare le modalità dell’affrancazione: vd. sotto al § 2.2.3 lett. [b]) avrebbero acquistato la condizione dei peregrini dediticii (Gaius, Inst, 1, 13Lege itaque Aelia Sentia cavetur, ut qui servi a dominis poenae nomine vincti sunt, quibusve stigmata inscripta sunt, deve quibus ob noxam quaestio tormentis habita sit et in ea noxa fuisse convicti sunt, quique ut ferro aut cum bestiis depugnarent traditi sunt, inve ludum custodiamve coniecti fuerint, et postea vel ab eodem domino vel ab alio manumissi, eiusdem condicionis liberi fiunt, cuius condicionis sunt peregrini dediticii: eiusdem condicionis liberi fiunt, cuius condicionis sunt peregrini dediticii). Gli affrancati in questione, pur diventando liberi, erano perciò annoverati in quello che i giuristi romani chiamavano il dediticiorum numerus (cfr. per es. Gaius, Inst., 1, 12Rursus libertinorum <genera sunt tria: aut enim cives Romani aut Latini aut dediticiorum> numero sunt. de quibus singulis dispiciamus; ac prius de <de> diticiis. e Tit. Vlp., 1, 5Libertorum genera sunt tria, cives Romani, Latini Iuniani, dediticiorum numero.; altre fonti e sottolineatura della natura giurisprudenziale dell’espressione in Bianchi [2020] 195-197). I soggetti così manomessi si vedevano perciò attribuire una condizione assimilata a quella degli stranieri arresisi con deditio al popolo Romano (Gaius, Inst., 1, 14Vocantur autem peregrini dediticii hi, qui quondam adversus populum Romanum armis susceptis pugnaverunt, deinde victi se dediderunt.: hi, qui quondam adversus populum Romanum armis susceptis pugnaverunt, deinde victi se dediderunt). Secondo una recente ipotesi (cfr. Bisio [2020] 152-154) alla base dell’assimilazione starebbe l’analogia riscontrabile tra la deditio e l’imposizione delle misure sanzionatorie di cui sotto alla lett. [c].
[b] E’ possibile che la previsione di cui sopra fosse rafforzata da un caput aggiuntivo con il quale si vietava di proporre leggi o senatoconsulti, o di esercitare per via delegata poteri magistratuali corrispondenti, che avessero come risultato di promuovere come cittadini romani gli affrancati ascritti al dediticiorum numerus. A insistere che la promozione civica fosse preclusa a questa classe di liberti sono infatti sia le fonti letterarie (cfr. Suet., Aug., 40, 4Seruos non contentus multis difficultatibus a libertate et multo pluribus a libertate iusta remouisse, cum et de numero et de condicione ac differentia eorum, qui manumitterentur, curiose cauisset, hoc quoque adiecit, ne uinctus umquam tortus ue quis ullo libertatis genere ciuitatem adipisceretur., già riportato al § 2.1) sia le fonti giuridiche (cfr. Gaius, Inst., 1, 26Pessima itaque libertas eorum est, qui dediticiorum numero sunt; nec ulla lege aut senatus consulto aut constitutione principali aditus illis ad civitatem Romanam datur.: nec ulla lege aut senatus consulto aut constitutione principali aditus illis ad civitatem Romanam datur). Tra l’altro, provvedimenti successivi, che pure estesero la portata di qualche caput della legge, rispettarono la riserva in questione (cfr. § 4.3 lett. [c]). Il che sembra andare nel segno che la lex Aelia Sentia contenesse appunto una sanctio di questo genere.
[c] Il catalogo delle condotte che inibivano l’approdo del manomesso alla civitas Romana era stilato dalla stessa legge (cfr. Theoph., 1, 5, 3Τῶν δὲ ἀπελευθέρων τριχῇ ἦν ἡ διαίρεσις. Πάλαι γὰρ ἐλευθερούμενοι ποτὲ μὲν τὴν μείζονα καὶ ἐννομωτάτην ἐλάμβανον ἐλευθερίαν καὶ ἐγίνοντο πολῖται Ῥωμαῖοι, ποτὲ δὲ τὴν ἐλάττονα καὶ ἀπετελοῦντο LATINOI IUNIANOI ἀπὸ νόμου IUNIU NORBANU, ὃς εὑρετὴς ἐγεγόνει τῆς αὐτῶν αἱρέσεως τοὺς δὲ DEDITICIUS ἐπενόησεν ὁ AELIOS SENTIOS. φησὶ γάρ·ἐάν τις ἐν τῷ καιρῷ τῆς δουλείας ὑποπέσῃ ἑνὶ τῶν παθῶν τῶν ὑπ’ αὐτοῦ εὑρεθέντων, οἷον ἐὰν διά τι πταῖσμα λάβῃ στίγματα κατὰ τοῦ μετώπου, ἤγουν βληθῇ ἐν δημοσίᾳ εἱρκτῇ, ἢ καὶ διά τι πταῖσμα τυπτόμενος ὁμολογήσῃ τὸ πταῖσμα, εἰ μετὰ ταῦτα εὔνους γενόμενος τῷ δεσπότῃ ἐλευθερωθῇ, ἐγένετο DEDITICIOS ἀπελεύθερος. ὠνόμασε δὲ αὐτοὺς DEDITICIUS κατὰ μίμησιν τῶν PEREGRINON DEDITICION. ποτὲ γάρ τινες τῶν PEREGRINON ὑποτελεῖς ὄντες Ῥωμαίοις τυραννικόν τι φρονήσαντες κατὰ τῶν Ῥωμαίων ὅπλα ἔλαβον κατ’αὐτῶν· καὶ παραταξάμενοι Ῥωμαῖοι ἐνίκησαν· οὐ δυνηθέντες γὰρ αὐτῶν τὴν ἀνδρείαν ὑπενεγκεῖν οἱ PEREGRINOI ῥίψαντες τὰ ὅπλα ἑαυτοὺς ἐκδεδώκασι. φιλανθρωπευσάμενοι δὲ Ῥωμαῖοι τὸ μὲν ζῆν αὐτοῖς ἐχαρίσαντο, ὕβρισαν δὲ αὐτοὺς μόνῃ προσηγορίᾳ, DEDITICIUS ὀνομάσαντες QUIA UICTI SESE DEDERUNT, τουτέστιν ἐπειδὴ ἡττηθέντες ἑαυτοὺς ἐκδεδώκασιν. καὶ οὗτοι οὖν οἱ ἀπελεύθεροι ὑπὸ τοῦ AELIU SENTIU ὠνομάσθησαν DEDITICIOI· κοινωνήσαντες γὰρ αὐτοῖς τῆς αἰσχρότητος ἐκοινώνησαν καὶ τῆς προσηγορίας.: ἑνὶ τῶν παθῶν τῶν ὑπ’ αὐτοῦ εὑρεθέντων). Esso comprendeva le seguenti ipotesi (su cui vd. in dettaglio Bisio [2020] 142-149): l’essere stati tenuti in catene per punizione, marcati a fuoco, sottoposti a interrogatorio sotto tortura e così riconosciuti colpevoli di un illecito, l’essere stati destinati al circo per i combattimenti con le belve o gladiatorii, l’essere stati sottoposti a custodia (Gaius, Inst., 1, 13Lege itaque Aelia Sentia cavetur, ut qui servi a dominis poenae nomine vincti sunt, quibusve stigmata inscripta sunt, deve quibus ob noxam quaestio tormentis habita sit et in ea noxa fuisse convicti sunt, quique ut ferro aut cum bestiis depugnarent traditi sunt, inve ludum custodiamve coniecti fuerint, et postea vel ab eodem domino vel ab alio manumissi, eiusdem condicionis liberi fiunt, cuius condicionis sunt peregrini dediticii., Tit. Vlp., 1, 11Dediticiorum numero sunt, qui poenae causa vincti sunt a domino, quibusve stigmata scripta fuerunt, quive propter noxam torti nocentesque inventi sunt, quive traditi sunt, ut ferro aut cum bestiis depugnarent, vel custodiam coniecti fuerunt, deinde quoquo modo manumissi sunt. idque lex Aelia Sentia facit.).
[d] Capita ulteriori (cfr. Gaius, Inst., 1, 27Quin etiam in urbe Roma vel intra centesimum urbis Romae miliarium morari prohibentur. et si qui contra ea fecerint, ipsi bonaque eorum publice venire iubentur ea condicione, ut ne in urbe Roma vel intra centesimum urbis Romae miliarium serviant neve umquam manumittantur; et si manumissi fuerint, servi populi Romani esse iubentur. et haec ita lege Aelia Sentia conprehensa sunt.: et haec ita lege Aelia Sentia conprehensa sunt) vietavano ai manomessi in questione di dimorare in Roma e nel raggio di un miglio dalla città, a pena di vedersi aggiudicare al migliore offerente, all’esito di un’asta pubblica che imponesse all’acquirente il divieto di una (ulteriore) manomissione dello schiavo. A corredo di quest’ultima prescrizione era poi stabilito che il dediticius aggiudicato all’asta, qualora fosse stato comunque manomesso, sarebbe divenuto servo pubblico (ibidem).
[e] Alle limitazioni indicate – che insieme alla riserva di cui alla lett. [b] facevano qualificare quella dei dediticii come una pessima libertas (cfr. Gaius, Inst., 1, 26Pessima itaque libertas eorum est, qui dediticiorum numero sunt; nec ulla lege aut senatus consulto aut constitutione principali aditus illis ad civitatem Romanam datur.) – si aggiungeva la mancanza del conubium con i cittadini Romani (arg. da Gaius, Inst., 1, 67Item si civis Romanus Latinam aut peregrinam uxorem duxerit per ignorantiam, cum eam civem Romanam esse crederet, et filium procreaverit, hic non est in potestate eius, quia ne quidem civis Romanus est, sed aut Latinus aut peregrinus, id est eius condicionis, cuius et mater fuerit, quia non aliter quisque ad patris condicionem accedit, quam si inter patrem et matrem eius conubium sit; sed ex senatus consulto permittitur causam erroris probare; et ita uxor quoque et filius ad civitatem Romanam perveniunt, et ex eo tempore incipit filius in potestate patris esse. idem iuris est, si eam per ignorantiam uxorem duxerit, quae dediticiorum numero est, nisi quod uxor non fit civis Romana.) e della testamenti factio passiva sempre nei confronti dei cittadini romani (Gaius, Inst., 1, 25Hi vero, qui dediticiorum numero sunt, nullo modo ex testamento capere possunt, non magis quam quilibet peregrinus, [quia?]nec ipsi testamentum facere possunt secundum id quod magis placuit., Tit. Vlp., 22, 2Dediticiorum numero heres institui non potest, quia peregrinus est, cum quo testamenti factio non est.). Queste ulteriori limitazioni – su cui vd. da ult., rispettivamente, A. Torrent, «La prohibicion de ius connubii a los dediticios Aelianos», in RIDROM, 7, 2011, 120-124, e M.A. Ligios, «Note sul regime successorio dei dediticii Aeliani in Gai. 3.74-3.76», in Jus, 65, 2018, 293-294 - sono presentate nelle fonti come una conseguenza naturale dell’assimilazione del liberto dediticius a uno straniero (cfr. Tit. Vlp., 22, 2Dediticiorum numero heres institui non potest, quia peregrinus est, cum quo testamenti factio non est.: quia peregrinum est; Gaius, Inst., 1, 25Hi vero, qui dediticiorum numero sunt, nullo modo ex testamento capere possunt, non magis quam quilibet peregrinus, [quia?]nec ipsi testamentum facere possunt secundum id quod magis placuit.: non magis quam quilibet peregrinus). E’ perciò probabile che la lex Aelia Sentia non disponesse direttamente in tal senso.
[f] Analogo silenzio osservava senz’altro la legge quanto alla mancanza di testamenti factio attiva (cfr. la contrapposizione instaurata da Tit. Vlp., 20, 14Latinus Iunianus, item is, qui dediticiorum numero est, testamentum facere non potest: Latinus quidem, quoniam nominatim lege Iunia prohibitum est; is autem, qui dediticiorum numero est, quoniam nec quasi civis Romanus testari potest, cum sit peregrinus, nec quasi peregrinus, quoniam nullius certae civitatis civis est, ut secundum leges civitatis suae testetur. rispetto al caput specifico che invece presentava la lex Iunia a proposito del liberto Latino). In questo caso la posizione della giurisprudenza non era tuttavia univoca. Difatti, al tempo almeno degli Antonini (cfr. Gaius, Inst., 1, 25Hi vero, qui dediticiorum numero sunt, nullo modo ex testamento capere possunt, non magis quam quilibet peregrinus, [quia?]nec ipsi testamentum facere possunt secundum id quod magis placuit. e Gaius, Inst., 3, 75Nam eorum bona, qui si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuuntur. non tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmerito: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciundi ius concedere.; Tit. Vlp., 20, 14Latinus Iunianus, item is, qui dediticiorum numero est, testamentum facere non potest: Latinus quidem, quoniam nominatim lege Iunia prohibitum est; is autem, qui dediticiorum numero est, quoniam nec quasi civis Romanus testari potest, cum sit peregrinus, nec quasi peregrinus, quoniam nullius certae civitatis civis est, ut secundum leges civitatis suae testetur. non registra l’opinione dissenziente), non tutti i giuristi negavano al peregrinus dediticius la facoltà di fare testamento. Le motivazioni addotte per escludere uno ius testamenti faciundi si basavano sia sulla speciale condizione di peregrini attribuita a questa classe di manomessi (cfr. Tit. Vlp., 20, 14Latinus Iunianus, item is, qui dediticiorum numero est, testamentum facere non potest: Latinus quidem, quoniam nominatim lege Iunia prohibitum est; is autem, qui dediticiorum numero est, quoniam nec quasi civis Romanus testari potest, cum sit peregrinus, nec quasi peregrinus, quoniam nullius certae civitatis civis est, ut secundum leges civitatis suae testetur.: quoniam nec quasi civis Romanus testari potest, cum sit peregrinus, nec quasi peregrinus, quoniam nullius certae civitatis civis est, ut secundum leges civitatis suae testetur) sia sul fatto che la lex Aelia Sentia non presentava una disposizione esplicita di segno opposto (cfr. Gaius, Inst., 3, 75Nam eorum bona, qui si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuuntur. non tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmerito: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciundi ius concedere.: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciundi ius concedere). I pochi giuristi che opinavano in senso contrario dovevano invece essere dell’idea che una norma autorizzativa fosse implicita nel caput che regolava la successione dei liberti dediticii (così ora anche Bianchi [2020] 198, ma sulla base di un ragionamento in parte diverso da quello presentato di seguito). Difatti, da un lato, è certo che il caput in questione includeva una fictio per effetto della quale ci si asteneva dal considerare i defunti come schiavi affrancati che avevano meritato la condizione degradata di peregrini dediticii (vd. meglio alla lett. successiva). Dall’altro lato, è verosimile che la fictio in questione si coordinasse a sua volta con perifrasi che indicavano la successione nei bona defunctorum, parlando genericamente di hereditas e bonorum possessio (vd. al § 2.2.3 lett. [c3 ]). Alcuni giuristi avrebbero potuto perciò interpretare questa combinazione nel senso che la fictio riattivasse in capo al liberto dediticius tutti quegli iura che valevano per lo schiavo manomesso in forma civile, in rapporto appunto a hereditas e bonorum possessio, dunque incluso il diritto di fare testamento.
[g] Indirettamente collegata alla mancanza di testamenti factio attiva, ma contenuta questa volta in un apposito caput della legge (cfr. il richiamo esplicito alla lex Aelia Sentia di Gaius, Inst., 3, 75Nam eorum bona, qui si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuuntur. non tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmerito: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciundi ius concedere., riportato poco più avanti), era poi la disposizione che alla morte dei liberti dediticii ne riservava il patrimonio ai manomissori. Stando a quanto si legge nel cd. Frg. Berol. de iudiciis, recto, col. II, l. 6-12À VÉRIFIER, sembrerebbe che il caput fosse formulato in modo tale da prescrivere al magistrato di approntare i rimedi giurisdizionali del caso come se il manomesso defunto non fosse stato ascritto al dediticiorum numerus (ita ius dicere iudicium reddere praetor iubeatur, ut ea fiant, quae futura forent, si dediticiorum numero facti non essent; cfr. V. Marotta, «P.Berol. inv. P 6757: Fragmenta Berolinensia incerti auctoris de iudiciis», in D. Mantovani – S. Ammirati [curr.] Giurisprudenza romana nei papiri. Tracce di una ricerca, Pavia, 2018, 142 ss., con la bibl. ivi indicata, cui adde ora Bianchi [2020] 190-196; ad avviso di tale autore, peraltro, la legge, senza rivolgersi al magistrato giusidicente, ma statutendo direttamente suulla condizione degli affrancati, avrebbe usato per la fictio le parole ‘si in aliquo vitio non essent’ [cfr. Gaius, Inst., 3, 175, riportato alla fine della lett. successiva], perciò stabilendo che i beni dei dediticii defunti dovessero avere la stessa destinazione dei beni degli affrancati che non si fossero macchiati di alcuna delle cattive condotte catalogate dalla legge stessa, e di cui sopra alla lett. [c]).
Visto che agli affrancati ascritti al dediticiorum numerus era inibito di fare testamento, almeno secondo l’opinione prevalente (vd. sopra alla lett. [f]), la disposizione aveva come risultato pratico che gli schiavi di condotta turpe manomessi secondo una delle tre forme iustae ac legitimae (e cioè censu, vindicta o testamento) sarebbero stati equiparati a liberti Romani morti intestati. Il che a sua volta implicava che i beni del defunto sarebbero stati devoluti interamente al patrono, visto quanto prescrivevano sia le Dodici Tavole sia l’editto pretorio in merito alla successione del liberto romano morto intestatus e senza una discendenza legittima. Si capisce, perciò, perché i giuristi potessero compendiare proprio in questi termini il complicato meccanismo elaborato dalla legge (cfr. Gaius, Inst., 3, 75Nam eorum bona, qui si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuuntur. non tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmerito: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciundi ius concedere.: eorum bona, qui si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuuntur; per il regime applicato ai bona degli schiavi di condotta turpe manomessi inter amicos vd. invece sotto § 2.2.3 lett. [c]).
2.2.2. - Ratio
[a] La disciplina che la lex Aelia Sentia dettava per gli schiavi di condotta turpe manomessi aveva senz’altro lo scopo, unitamente ad altre norme di questa prima sezione della legge, di filtrare l’accesso alla civitas Romana, escludendo una serie di affrancati individuati a priori come immeritevoli (vd. meglio sotto § 2.4.3). Va in questa direzione anche l’insistenza con cui le fonti antiche sottolineano il risultato così ottenuto grazie al provvedimento (cfr. i brani richiamati al § precedente lett. [b], cui adde Isid., Orig., 9, 4, 50Dum quondam aduersus populum Romanum serui armis sumptis dimicassent, uicti se dederunt, conprehensi que uaria turpitudine affecti sunt. Ex his quidam postea a dominis manumissi, propter suppliciorum notas, quas manifeste perpessi sunt, ad dignitatem ciuium Romanorum non peruenerunt.: propter suppliciorum notas […] ad dignitatem civium Romanorum non pervenerunt).
[b] Viene peraltro spontaneo pensare che non fosse estranea alla riforma anche una ragione deterrente (tanto più efficace quanto più l’aspettativa della manomissione fosse stata così diffusa e generalizzata quanto ritengono alcuni studiosi moderni: cfr. G. Alfödy, Storia sociale dell’antica Roma, trad. it., Bologna, 1987, 189-190). Difatti, una volta entrata in vigore la lex Aelia Sentia, chi viveva in servitù era messo nella condizione di sapere che un’ampia serie di cattive condotte gli avrebbe precluso per il futuro la possibilità di avere una discendenza legittima (§ precedente lett. [e]) alla quale lasciare un proprio patrimonio (lett. [g]), e senza alcuna chance di rimediare alla situazione grazie a una successiva promozione alla civitas Romana (lett. [b]).
2.2.3. - Sovrapposizione alla libertas Latina
[a] Al tempo degli Antonini, il combinato disposto della lex Aelia Sentia e della lex Iunia faceva sì che uno schiavo di condotta turpe non affrancato in forma solenne (vale a dire censu, vindicta o testamento), bensì nter amicosi, avrebbe conseguito la libertas. Anziché conseguire parallelamente lo status di Latinus Iunianus, pure costui sarebbe stato tuttavia ascritto nel dediticiorum numerus (cfr. Gaius, Inst., 1, 15Huius ergo turpitudinis servos quocumque modo et cuiuscumque aetatis manumissos, etsi pleno iure dominorum fuerint, numquam aut cives Romanos aut Latinos fieri dicemus, sed omni modo dediticiorum numero constitui intellegemus.: huius ergo turpitudinis servos quocumque modo […] manumissos […] numquam […] Latinos fieri dicemus, sed omni modo dediticiorum numero constitui intellegemus; analogamente Tit. Vlp., 1, 11Dediticiorum numero sunt, qui poenae causa vincti sunt a domino, quibusve stigmata scripta fuerunt, quive propter noxam torti nocentesque inventi sunt, quive traditi sunt, ut ferro aut cum bestiis depugnarent, vel custodiam coniecti fuerunt, deinde quoquo modo manumissi sunt. idque lex Aelia Sentia facit. i.f.).
[b] Il processo storico che portò a questo risultato è reso oscuro dalle incertezze che regnano intorno alla data della lex Iunia e al suo rapporto cronologico con la lex Aelia Sentia.
[b1] Datando la lex Iunia al 25 o al 17 a.C. (secondo le due ipotesi più verosimili di una datazione alta di questo provvedimento: vd. notice n° 490, § 3.2), si deve ipotizzare che fino al 4 d.C. lo schiavo di condotta turpe manomesso informalmente accedesse comunque alla Latinitas, e che il regime sia cambiato appunto con il passaggio ai comizi della lex Aelia Sentia, vuoi perché questa seconda legge portava un caput specifico sugli affrancati inter amicos (o per come si esprimeva la lex Iunia [vd. notice n° 490, § 2.2] su “coloro che vivevano in libertà per volontà del padrone”; caput di cui però non c’è traccia), vuoi perché la legge parlava semplicemente di schiavi (di condotta turpe) “manomessi”; il che avrebbe permesso di riferirne la disposizione non solo agli schiavi manomessi censu, vindicta o testamento, ma in generale agli schiavi quoquo modo manumissi, come sintetizzano le fonti giuridiche di cui alla lett. precedente.
[b2] Datando la lex Iunia al 19 d.C., è invece plausibile pensare che fino a tale data lo schiavo di condotta turpe manomesso inter amicos continuasse a rientrare tra gli schiavi liberi di fatto, in quanto coperti dalla tuitio pretoria. L’alternativa – sostenuta in particolar modo da Carrelli (1886) 45 – che il magistrato si fosse ispirato allo spirito della lex Aelia Sentia e avesse escluso questi soggetti dalla propria tuitio, sottintende che il regime pretorio fosse in realtà molto più duro della legge stessa (lasciando il manomesso in balia del capriccio del manomissore) ed è dunque meno plausibile. La condizione di morantes in libertate degli schiavi di condotta turpe manomessi ante legem Iuniam latam sarebbe mutato appunto con il passaggio di quest’altra legge ai comizi. Da un lato, pure i manomessi di questo genere sarebbero stati finalmente considerati come soggetti liberi di diritto, ascrivendoli però, dall’altro lato, non alla classe dei latini Iuniani (come avveniva per il resto dei morantes in libertate voluntate domini), bensì a quella degli appartenenti al dediticiorum numerus (come avveniva per gli schiavi di condotta turpe affrancati iuste ac legitime). Per spiegare questo secondo passaggio, vale poi l’alternativa già vista per l’ipotesi che la lex Aelia Sentia seguisse la lex Iunia (anziché viceversa). In altre parole, o la lex Iunia prevedeva un caput apposito (del quale non c’è però traccia), con il quale si precisava che coloro che vivevano da liberi voluntate domini, ma che in servitù si erano macchiati di una delle cattive condotte previste dalla lex Aelia Sentia, sarebbero stati assimilati ai peregrini dediticii, oppure furono i giuristi ad appoggiarsi al generico dettato della lex Aelia Sentia, per concludere che i relativi capita si applicassero anche alle “nuove” manomissioni finalmente uscite dal limbo della tuitio pretoria.
[c] Un piccolo indizio che la lex Aelia Sentia non avesse presente la classe dei Latini Iuniani (e fosse perciò precedente all’omonima lex Iunia) si può forse trarre da quella che appare la formulazione più verosimile del caput relativo alla successione di coloro che appartenevano al dediticiorum numerus.
[c1] Come si è detto (§ 2.2.2 lett. [g]), alla morte del liberto dediticius la legge disponeva (direttamente o indirettamente) che il magistrato approntasse la propria giurisdizione sulla base della fictio che il defunto non rientrasse in quella classe di affrancati cui si attribuiva per cattiva condotta la dediticia libertas. Al tempo degli Antonini ciò produceva tuttavia due esiti distinti. Se il defunto era uno schiavo di condotta turpe, liberato grazie a una manumissio solenne, allora i suoi beni, stante anche il fatto che nel silenzio della legge la maggioranza dei giuristi negava che il dediticius Aelianus avesse diritto di fare testamento (vd. supra § 2.2.2 lett. [f]), sarebbero stati attribuiti al patrono come se si fosse trattato dell’eredità di un liberto Romano (cfr. Gaius, Inst., 3, 75Nam eorum bona, qui si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuuntur. non tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmerito: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciundi ius concedere.: quasi civium Romanorum patronis tribuuntur). Se invece si fosse proceduto alla affrancazione inter amicos, stante l’identica incapacità testamentaria (questa volta disposta expressis verbis dalla lex Iunia: vd. notice n° 490, § 2.1.2, lett. [b]), i beni sarebbero stati attribuiti al patrono come se si fosse trattato del patrimonio di un liberto Latino (cfr. Gaius, Inst., 3, 76Eorum vero bona, qui si non in aliquo vitio essent, manumissi futuri Latini essent, proinde tribuuntur patronis, ac si Latini decessissent. nec me praeterit non satis in ea re legis latorem voluntatem suam verbis expressisse.: ribuuntur patronis, ac si Latini decessissent).
[c2] A commento di questa complessa disciplina, Gaio osserva che il legislatore (sottintendendo il legis Aeliae Sentiae lator) non era stato sufficientemente chiaro (nec me praeterit non satis in ea re legis latorem voluntatem suam verbis expressisse: Gaius, Inst., 3, 76). E’ stato sostenuto - in part. da Ligios, «Note sul regime successorio» cit., 305 – che con questa osservazione Gaio intendeva riferirsi al fatto che la lex Aelia Sentia non puntualizzasse che ai liberti dediticii manomessi in forme civili era preclusa la possibilità di fare testamento (vd. supra § 2.2.1 lett. [g]). Ciò è possibile, ma non toglie che il giurista dovesse riferirsi innanziutto alla disciplina alla quale la sua osservazione direttamente si riannoda in Inst., 3, 76, vale a dire la disciplina applicata ai sensi della lex Aelia Sentia per la successione ai liberti dediticii manomessi inter amicos (così anche Bianchi [2020] 201-202). Il fatto che (anche) su questo punto il legis lator non si fosse espresso in modo sufficientemente puntuale lascia perciò intendere due cose. La prima illazione è che non solo nella lex Iunia, ma nemmeno nella lex Aelia Sentia doveva trovarsi un caput specifico rispetto alla successione degli schiavi di condotta turpe manomessi inter amicos (così anche Bianchi [2020] 203, ad avviso del quale Gaio avrebbe criticato in particolare «la laconicità» della legge lex Aelia Sentia, per aver regolato la successione dei liberti dediticii «senza fare distinzione» tra le due categorie degli affrancati in modo solenne e in modo informale). La seconda – e più significativa – illazione è che la formulazione apparentemente onnicomprensiva del caput della lex Aelia Sentia doveva dare adito in realtà a qualche dubbio sulla sua riferibilità anche alla classe dei dediticii manomessi inter amicos.
[c3] I dubbi in questione si possono spiegare ipotizzando che la lex Aelia Sentia, nel disciplinare la successione degli schiavi affrancati a dispetto della cattiva condotta tenuta durante la servitù, per un verso parlasse tout court di “manumissi”, ma per altro verso si riferisse alla loro successione in termini di “hereditas” e “bonorum possessio” (per un parallelo, cfr. l. Irn., cap. 72 (**À ENCODER**): inque eius, qui ita manumissus manumissave erit, hereditate bonorum possessione petenda operis dono munere idem iuris […] esto, quod esset, si …). Parlando genericamente di manumissi si poteva infatti pensare che il caput fosse applicabile a qualunque genere di affrancati (vindicta, censu, testamento, oppure inter amicos). Ma d’altro canto, hereditas e bonorum possessio erano istituti riferibili ai soli liberti Romani (dato che i patrimoni dei liberti Latini erano attribuiti ai patroni “iure quodammodo peculii”: cfr. notice n° 490, § 2.1.2 lett. [b]); il che spiegherebbe i dubbi che si potevano nutrire sulla possibilità di estendere il caput legis oltre questa classe di liberti.
2.3. - Età minima del manomissore
2.3.1. - Capita
[a] Un unico caput della legge doveva prevedere il caso del proprietario minore di vent’anni, e attribuirgli uno ius manumittendi solo se esercitato vindicta e previa l’esistenza di una iusta causa manumissionis riconosciuta come tale dall’apposito consilium istituito dalla stessa lex Aelia Sentia (Gaius, Inst., 1, 38tem eadem lege minori viginti annorum domino non aliter manumittere permittitur, quam vindicta si apud consilium iusta causa manumissionis adprobata fuerit. = Inst., 1, 6, 4Eadem lege Aelia Sentia domino minori annis viginti non aliter manumittere permittitur, quam si vindicta apud consilium iusta causa manumissionis adprobata fuerint manumissi.). E’ verosimile che il caput presentasse la forma di una proibizione relativa (cfr. Tit. Vlp., 1, 13Eadem lex eum dominum, qui minor viginti annorum est, prohibet servum manumittere, praeterquam si causam apud consilium probaverit.: prohibet manumittere praeterquam …); proibizione dalla quale i giuristi ricavavano coerentemente la nullità sia della manumissio vindicta disposta senza rivolgersi preventivamente al consilium sia della manumissio testamento (cfr. Gaius, Inst., 1, 40Cum ergo certus modus manumittendi minoribus XX annorum dominis per legem Aeliam Sentiam constitutus sit, evenit, ut qui XIIII annos aetatis expleverit, licet testamentum facere possit et in eo heredem sibi instituere legataque relinquere possit, tamen si adhuc minor sit annorum xx, libertatem servo dare non potest.).
[b] Non sembra che le iustae causae manummisionis fossero catalogate dalla legge (cfr. D., 40, 12, 15, 1Paul. 1 ad l. Aeliam Sentiam : Ex praeterito tempore plures causae esse possunt, veluti quod dominum in proelio adiuvaverit, contra latrones tuitus sit, quod aegrum sanaverit, quod insidias detexerit. et longum est, si exequi voluerimus, quia multa merita incidere possunt, quibus honestum sit libertatem cum decreto praestare: quas aestimare debebit is, apud quem de ea re agatur.: et longum est, si exequi voluerimus, quia multa merita incidere possunt, quibus honestum sit libertatem cum decreto praestare). La giurisprudenza riconosceva comunque un arco di ipotesi estremamente ampio (sul quale vd. in dettaglio De Dominicis [1947-48] passim; panoramiche più recenti, con l’indicazione delle fonti pertinenti, in F.M. Silla, «Oltre il corpo: affectio iusta e “iusta libertas” della nutrice», in RDR, 16-17, 2016-2017, 10-12, 18-20, in Bisio [2020] 34-35 e 178-180, e in Rainer [2021] 79-80). Le ipotesi spaziavano dai legami di parentela naturale o di particolare affetto che intercorrevano tra manomissore o manomesso (alumnus, pedagogus, capsarius, nutrix, conlactaneus), alle particolari benemerenze acquisite nell’attendere alla persona del padrone (per es. per l’aiuto prestato in battaglia, contro i briganti o nella malattia), fino ai ruoli di particolare vicinanza o fiducia (uxor o procurator) che nell’interesse stesso del manomissore la persona manomessa avrebbe dovuto assumere una volta divenuto liberto o liberta.
2.3.2. - Ratio
[a] Come la precedente e la successiva, non c’è dubbio che anche la disposizione che innalzava a vent’anni l’età minima del manomissore finisse all’atto pratico per incidere sull’accesso alla civitas Romana. Indirettamente, la si potrebbe perciò ritenere una disposizione riconducibile anch’essa a quell’esigenza di preservare l’incorruttibilità del popolo Romano che nell’esordio di Suet., Aug. 40, 3 (vd. sopra al § 1 lett. [b]) viene indicata come l’obiettivo fondamentale della riforma augustea. Va detto però che nelle fonti giuridiche la disposizione risulta giustificata con l’esigenza di salvaguardare gli interessi di un manomissore non ancora in grado di soppesare pienamente la portata delle proprie azioni (cfr. D., 18, 7, 4, pr.Marcell. 24 dig. : Si minor viginti annis servum tibi in hoc vendiderit et tradiderit, ut eum manumitteres, nullius momenti est traditio, quamquam ea mente tradiderit, ut, cum viginti annos ipse explesset, manumitteres: non enim multum facit, quod distulit libertatis praestationem: lex quippe consilio eius quasi parum firmo restitit.: lex quippe consilio eius quasi parum firmo restitit; analogamente Sent. Paul., 4, 12, 7Servus furiosi domini vel pupilli iussu vinctus dediticiorum numero non efficitur, quia neque furiosus neque pupillus exacti consilii capax est. e Inst., 1, 6, 7Cum ergo certus modus manumittendi minoribus viginti annis dominis per legem Aeliam Sentiam constitutus sit, eveniebat, ut, qui quattuordecim annos aetatis expleverit, licet testamentum facere possit et in eo heredem sibi instituere legataque relinquere possit, tamen, si adhuc minor sit annis viginti, libertatem servo dare non poterat. quod non erat ferendum, si is, cui totorum bonorum in testamento dispositio data erat, uni servo libertatem dare non permittebatur. quare nos similiter ei quemadmodum alias res ita et servos suos in ultima voluntate disponere quemadmodum voluerit permittimus, ut et libertatem eis possit praestare. sed cum libertas inaestimabilis est et propter hoc ante vicesimum aetatis annum antiquitas libertatem servo dari prohibebat: ideo nos mediam quodammodo viam eligentes non aliter minori viginti annis libertatem in testamento dare servo suo concedimus, nisi septimum et decimum annum impleverit et octavum decimum tetigerit. cum enim antiquitas huiusmodi aetati et pro aliis postulare concessit, cur non etiam sui iudicii stabilitas ita eos adiuvare credatur, ut et ad libertates dandas servis suis possint pervenire.) e per questa ragione più esposto del normale proprietario a lusinghe e raggiri dei servi (cfr. Theoph., 1, 6, 4Ἔγνωμεν ἐκ τῶν προλαβόντων ὅτι ὁ AELIOS SENTIOS ἀκυροῖ τὰς ἐλευθερίας τὰς IN FRAUDEM CREDITORUM διδομένας μισῶν τὴν τοῦ ἐλευθεροῦντος διάνοιαν ὡς ἐπ’ ἀδικίᾳ γινομένην ἑτέρων. ὁ αὐτὸς νόμος ἐπέχει τὰς ἐλευθερίας τὰς παρεχομένας ὑπὸ τῶν ἐλαττόνων τῶν εἴκοσι ἐνιαυτῶν, οὐ διὰ μῖσος, ἀλλὰ δι’ εὔνοιαν τῶν ἐλευθερούντων. ἠπίστατο γὰρ ὡς οἱ τοιαύτην ἄγοντες ἡλικίαν εὐχερῶς ἀπατῶνται καὶ ταῖς τῶν οἰκετῶν εἴκουσι κολακείαις καὶ τούτῳ τῷ τρόπῳ τὴν ἑαυτῶν ἐλαττοῦσιν ὑπόστασιν. τοῦτο οὖν εἰδὼς ταῖς ἐκεῖθεν ἐπιβουλαῖς τὴν ἑαυτοῦ νομοθεσίαν ἀντέστησεν. κωλύσας δὲ τούτους τὸν ἴδιον οἰκέτην ἐλευθεροῦν, ἐπέτρεψεν ἐλευθερίαν διδόναι ἐπὶ εὐλόγου αἰτίας ἐπὶ ἄρχοντος ἐν CONSILIO δοκιμαζομένης. εἴπωμεν δὲ πρότερον τί ἐστι CONSILION καὶ οὕτως ἐροῦμεν τὰς εὐλόγους εἴπωμεν δὲ πρότερον τί ἐστι CONSILION καὶ οὕτως ἐροῦμεν τὰς εὐλόγους αἰτίας.: ἠπίστατο γὰρ ὡς οἱ τοιαύτην ἄγοντες ἡλικίαν εὐχερῶς ἀπατῶνται καὶ ταῖς τῶν οἰκετῶν εἴκουσι κολακείαις καὶ τούτῳ τῷ τρόπῳ τὴν ἑαυτῶν ἐλαττοῦσιν ὑπόστασιν).
[b] Va notato che nel panorama normativo del principato la stabilitas iudicii (come la definisce Inst., 1, 6, 7) si considerava acquisita a fasce diverse d’età, a seconda del bene giuridico in gioco: diciassette anni erano richiesti per es. dal pretore per postulare pro aliis, venticinque per uscire dall’ombrello della curatela e della restitutio in integrum ob aetatem. Il limite di vent’anni – adottato dalla lex Aelia Sentia – trova peraltro dei paralleli nelle leggi giudiziarie coeve, le quali richiedevano la stessa età sia per essere citati coattivamente come testimoni dall’accusa in un iudicium publicum (cfr. D., 22, 5, 20Ven. 2 de iudic. publ. : In testimonium accusator citare non debet eum, qui iudicio publico reus erit aut qui minor viginti annis erit. e notice n° 478, § 4.4) sia forse per essere scelti come iudex unus dalle due parti coinvolte in una lite privata (cfr. D., 4, 8, 41Call. 1 ed. monit. : Cum lege Iulia cautum sit, ne minor viginti annis iudicare cogatur, nemini licere minorem viginti annis compromissarium iudicem eligere: ideoque poena ex sententia eius nullo modo committitur. maiori tamen viginti annis, si minor viginti quinque annis sit, ex hac causa succurrendum, si temere auditorium receperit, multi dixerunt. e notice n° 477, § 2.2.2.1).
2.3.3. - Sovrapposizione alla libertas Latina
[a] Coerentemente alla ratio indicata dalle fonti giuridiche, al vaglio della causae probatio doveva sottoporsi anche il minore di vent’anni che volesse manomettere inter amicos (cfr. Gaius, Inst., 1, 41Et quamvis Latinum facere velit minor XX annorum dominus, tamen nihilo minus debet apud consilium causam probare et ita postea inter amicos manumittere.: et quamvis Latinum facere velit minor viginti annorum dominus, tamen nihilo minus debet apud consilium causam probare et ita postea inter amicos manumittere).
[b] Il modo in cui la cosa è presentata nella prima parte di Ps. Dosith., Frg. iur., 13(Minor) viginti annorum manumittere neque ex vindicta potest neque testamento, itaque nec Latinum facere potest; tantum enim apud consilium potest mamunittere servum suum causa probata. - (Minor) viginti annorum manumittere neque ex vindicta potest neque testamento; itaque nec Latinum facere potest – sembrerebbe sottintendere che la disposizione sull’età minima del manomissore fosse stata concepita per le manomissioni iustae ac legitimae e applicata solo per estensione alle manomissioni informali. Al netto di tutte le cautele imposte da un testo che non coincide con uno scritto giurisprudenziale originale, ma si presenta come un esercizio scolastico di traduzione in greco e di ri-traduzione in latino (vd. da ult. G. Falcone, «Sul cd. Fragmentum Dositheanum», in Specula Iuris 1, 2021, 203-24 e P. Mitchell, «Fragmentum Dositheanum», in Mantovani – Wibier, The Circulation, Use, and Reception cit. [forthcoming]), il dato sembrerebbe dunque sottintendere anch’esso quanto rilevato al § 2.2.3 lett. [c], vale a dire che chi attese alla stesura della lex Aelia Sentia non doveva confrontarsi ancora con la lex Iunia e con gli effetti che quest’altra legge attribuiva alle manomissioni inter amicos.
2.4. - Età minima del manomesso
2.4.1. - Capita
[a] Un primo caput di quest’altra sezione della lex Aelia Sentia disponeva che una manumissio vindicta dello schiavo minore di trent’anni avrebbe fatto acquistare la cittadinanza romana solo se il manomissore avesse fatto preventivamente riconoscere la iusta causa dell’atto dall’apposito consilium istituito dalla stessa lex Aelia Sentia (così Tit. Vlp., 1, 12Eadem lege cautum est, ut minor triginta annorum servus vindicta manumissus civis Romanus non fiat, nisi apud consilium causa probata fuerit; ideo sine consilio manumissum Cassius servum manere putat. Testamento vero manumissum perinde haberi iubet, atque si domini voluntate in libertate esset. Ideoque Latinus fit.: eadem lege cautum est, ut minor triginta annorum servus vindicta manumissus civis Romanus non fiat, nisi apud consilium causa probata fuerit; analogamente Gaius, Inst., 1, 18Quod autem de aetate servi requiritur, lege Aelia Sentia introductum est: nam ea lex minores XXX annorum servos non aliter voluit manumissos cives Romanos fieri, quam si vindicta apud consilium iusta causa manumissionis adprobata liberati fuerint.).
[b] Così come accadeva per il modus relativo all’età minima del manomissore (§ 2.3.1 lett. [b]), le causae idonee non erano codificate dalla legge. Uguale era comunque il ventaglio riconosciuto dalla giurisprudenza (cfr. Gaius, Inst., 1, 39Iustae autem causae manumissionis sunt, veluti si quis patrem aut matrem aut paedagogum aut conlactaneum manumittat. sed et illae causae, quas superius in servo minore XXX annorum exposuimus, ad hunc quoque casum, de quo loquimur, adferri possunt. item ex diverso hae causae, quas in minore XX annorum domino rettulimus, porrigi possunt etiam ad servum minorem XXX annorum.: item ex diverso hae causae, quas in minore viginti annorum domino rettulimus, porrigi possunt etiam ad servum minorem triginta annorum).
[c] Un caput ulteriore era dedicato agli effetti voluti dalla legge per l’ipotesi che uno schiavo al di sotto dell’età minima fosse stato affrancato testamento (cioè con una modalità che escludeva a priori la procedura della manumissio apud consilium: vd. meglio § 2.5.2 lett. [b1]). La parafrasi che ne espone Tit. Vlp., 1, 12Eadem lege cautum est, ut minor triginta annorum servus vindicta manumissus civis Romanus non fiat, nisi apud consilium causa probata fuerit; ideo sine consilio manumissum Cassius servum manere putat. Testamento vero manumissum perinde haberi iubet, atque si domini voluntate in libertate esset. Ideoque Latinus fit., farebbe dire che la legge comandasse di considerare il manomesso (perinde haberi iubet) alla stregua di uno schiavo libero di fatto (atque si domini voluntate in libertate esset).
Alla parafrasi in questione sempre Tit. Vlp., 1, 12 fa seguire l’inciso «ideoque Latinus fit». L’osservazione collima con quanto si dice in Gaius, Inst., 1, 17 (riportato sotto alla lett. [d2]) e cioè che una manomissione iusta ac legitima che non rispettasse il modus relativo all’età minima dell’affrancato (e non riguardasse uno schiavo di condotta turpe) avrebbe fatto acquisire al manomesso la Latinitas (vd. sotto alla lett. [d2]). Ancora una volta, il percorso storico che portò a questo risultato è reso tuttavia oscuro dalle incertezze sulla cronologia rispettiva delle due leggi Iunia ed Aelia Sentia.
[c1] Datando la lex Iunia al 25 o al 17 a.C. si può supporre che la lex Aelia Sentia si sia limitata a estendere la libertas Latina a una ipotesi ulteriore rispetto a quelle contemplate dalla lex Iunia (manomessi inter amicos, mamomessi dal titolare di un in bonis habere: vd. notice n° 490, § 2.2).
[c2] Viceversa, datando la lex Iunia al 19 d.C., il quadro delle possibilità si biforca ulteriormente. Una prima possibilità (sostenuta da vari autori, anche se con sfumature non sempre identiche: cfr. per es. Humbert [1981] 107 nt. 12, [2010] 145 nt. 30, Bisio [2020] 98-99 e da ult. Rainer [2021] 81-88 e 95-96) è che agli schiavi minori di trent’anni manomessi testamento già la lex Aelia Sentia attribuisse una libertà artificiale e degradata di diritto; una libertà che avrebbe funzionato in qualce modo da “embrione” per quella libertas Latina che nel 19 d.C. sarebbe stata attribuita a (tutti) i morantes in libertate voluntate domini dalla lex Iunia. Una seconda ipotesi (su cui vd. da ult. Venturini [2000] 178-184) è che la lex Aelia Sentia – anche in ragione della procedura complementare prevista per permettere ai manomessi testamento di regolarizzare la loro posizione (vd. § 2.5.2) – si fosse limitata a rinviare all’editto del pretore, riconoscendo così implicitamente che nelle more di questa regolarizzazione non dovesse spettare ai soggetti in questione altro che quella libertà di fatto garantita dalla tuitio del magistrato; solo con il 19 d.C. gli schiavi minorenni manomessi testamento sarebbero perciò passati, insieme a tutti gli altri morantes in libertate voluntate domini, alla libertà di diritto (Latino) introdotta dalla lex Iunia.
[d] Quali che fossero i dettagli della regolamentazione, la lex Aelia Sentia si soffermava dunque espressamente sulla condizione degli schiavi minori di trent’anni manomessi testamento. Sembra invece che la legge tacesse quanto alla sorte dello schiavo minorenne che il padrone avesse sì manomesso vindicta, ma senza rispettare il passaggio preliminare della causae adprobatio apud consilium. Le conseguenze di questo caso particolare dovettero essere precisate per interpretationem dai giuristi, ma in modi che non sono facilmente definibili.
[d1] In astratto, le conseguenze di una manumissio vindicta non conforme al dettato della lex Aelia Sentia avrebbero potuto inquadrarsi in due modi. Da un lato, si sarebbe potuto attribuire all’atto gli stessi effetti che la legge attribuiva alla manumissio testamento del servo minorenne (e cioè il riconoscimento di un in libertate morari voluntate domini, coincidesse esso o meno, al momento della promulgazione della legge, con la Latinitas Iuniana: vd. qui sopra alla lett. [c]). Dall’altro lato, la manomissione si sarebbe potuta giudicare come nulla (applicando perciò la stessa conseguenza prevista dalla legge per la manumissio vindicta disposta senza attenersi al modus relativo all’età minima del manomissore: § 2.3.1 lett. [a]).
[d2] La dicotomia delineabile in astratto si direbbe riflessa in concreto anche dalle fonti, sia pure con numerose ombre, in parte dovute alla tradizione testuale.
Per un verso, la prima parte di Tit. Vlp., 1, 12, dopo aver presentato la parafrasi del caput legis relativo alla manumissio apud consilium (vd. qui sopra alla lett. [c]) aggiunge: «ideo sine consilio manumissum Caesaris servum manere putat». La discussione intorno a questa chiosa è infinita, specie a causa della corruttela Caesaris, alla quale riesce in effetti difficile dare un senso plausibile. Sembra tuttavia verosimile (vd. per lo status quaestionis Avenarius [2005] 183-186 e in part. p. 185-186 per la tesi qui seguita) che dovesse esservi un qualche giurista (putat) dell’idea che una manumissio realizzata ignorando la procedura del consilium fosse nulla (servum manere).
Per altro verso, in Gaius, Inst., 1, 17 si legge che la mancanza anche di una sola delle tre condizioni prescritte normativamente (vale a dire la maggiore età del manomesso, il pieno dominio quiritario del manomissore, l’adibizione di una forma legittima della manomissione) avrebbe fatto sì che lo schiavo affrancato approdasse alla Latinitas (Nam in cuius personam tria haec concurrunt, ut maior sit annorum triginta et ex iure Quiritium domini et iusta ac legitima manumissione liberetur, id est vindicta aut censu aut testamento, is civis Romanus fit; sin vero aliquid eorum deerit, Latinus erit). Non c’è bisogno di precisare che le Istituzioni gaiane fanno stato per il loro tempo. Tuttavia, a meno di voler congetturare che il quadro normativo sia passato dalla nullità alla Latinitas, per effetto dell’intervento della lex Iunia (come qualcuno in effetti ha fatto: cfr. i contributi elencati in Cantarelli [1883] 52), si deve dedurre da questa testimonianza che la lex Aelia Sentia doveva essere interpretata nel senso di riconoscere allo schiavo minore di trent’anni manomesso semplicemente vindicta la stessa condizione riconosciuta dalla legge allo schiavo minorenne manomesso testamento, vale a dire la condizione di una persona che in libertate morabat voluntate domini (il che è anche ragionevole in considerazione del fatto che, dopo la manomissione, queste persone vivevano a tutti gli effetti come persone libere su autorizzazione del padrone [cfr. anche Hölder (1885) 213 s.]).
[d3] Al netto della doppia difficoltà di spiegare la speculare frammentarietà d’informazioni dell’uno e dell’altro testo, la sola conciliazione possibile tra Tit. Vlp., 1, 12 e Gaius, Inst., 1, 17 sta dunque nel supporre che tra i giuristi non vi fosse completa identità di vedute circa le conseguenze delle manomissioni vindicta effettuata senza rispettare le prescrizioni relative al consilium. A fronte di una maggiornaza che agli schiavi così affrancati doveva riconoscere la condizione di morantes in libertate voluntate domini (e dunque di liberti Latini, post legem Iuniam latam), una posizione minoritaria, di cui dà conto Tit. Vlp., 1, 12, doveva invece optare per la nullità della manumissione (forse anche in ragione degli argomenti che poteva offire la procedura complementare di regolarizzazione di cui si dirà al § 2.5.2, e in part. alla lett. [b2]).
2.4.2. - Sovrapposizione alla libertas Latina
L’adizione del consilium e l’approvazione della causa manumissionis non erano richieste quando lo schiavo minore di trent’anni fosse stato manomesso inter amicos. Per questa ragione si poteva instaurare una contrapposizione implicita (come quella proposta in Ps. Dosith., Frg. iur., 13-14(Minor) viginti annorum manumittere neque ex vindicta potest neque testamento, itaque nec Latinum facere potest; tantum enim apud consilium potest mamunittere servum suum causa probata. Is autem qui manumittitur inter amicos, quotcumque est annorum, Latinus fit, et tantum ei hoc prodest manumissio, ut postea iterum possit ex vindicta vel testamento (manumitti) et civis Romanus fieri.) della diversa estensione dei modus relativi all’età minima di manomesso e manomissore. Il primo restava infatti circoscritto alle manomissioni iustae ac legitimae, il secondo no (vd. § 2.3.3 lett. [b]).
2.4.3. - La ratio della misura e disegno complessivo della prima parte della legge
[a] Per mettere a fuoco il disegno complessivo elaborato dalla lex Aelia Sentia, con questo primo gruppo di disposizioni relative ai modus manumittendi, è utile partire dalla diversa estensione che i giuristi finirono per attribuire alle regole relative all’età di manomissori e manomessi.
[a1] Come si è appena detto, la norma che limitava le manomissioni degli schiavi minori di trent’anni restò confinata entro il perimetro delle manomissioni iustae ac legitimae. Viceversa, la norma che limitava le manomissioni a causa dell’età del manomissore venne estesa alle manomissioni informali. Si sa anzi che la stessa regola caratterizzava persino le manomissioni disciplinate dagli statuti municipali delle comunità che fruivano del ius Latii (cfr. l. Irn., cap. 28 (**À ENCODER**)).
[a2] Questa asimmetria non può avere altra matrice che la diversa ratio dell’una e dell’altra disposizione. Come si è detto (§ 2.3.2 lett. [a]) la norma che imponeva al padrone con meno di vent’anni di farsi approvare la causa della manomissione da un apposito consilium, è giustificata dalle fonti giuridiche con l’esigenza di proteggere lo stesso manomissore, la cui età rendeva ancora fragili le capacità di discernimento. Risulta perciò coerente che il limite in questione non solo sia stato esteso alle manomissioni informali e municipali, ma anche che sia stato mantenuto tal quale persino da chi, come Giustiniano (vd. § 4.2 lett. [a-b]), avrebbe proceduto ad abrogare i due modus manumittendi che dissociavano libertas e civitas.
Il fatto che il certus modus relativo all’età minima dell’affrancato sia rimasto una caratteristica delle sole manomissioni iustae ac legitimae lo segnala dunque come un limite necessariamente connesso a quell’unico aspetto che non era implicato né dalle manomissioni informali né dalle manomissioni disposte da chi aveva la sola cittadinanza Latina, vale a dire l’acquisto della civitas Romana.
[b] Anche questa circostanza trapela – e in modo nemmeno tanto indiretto - dalle fonti. Quando Giustiniano abrogò il modus relativo alla minore età del manomesso, lo fece con la motivazione che l’esigenza cui fare fronte era proprio il contrario di una serrata della cittadinanza (ampliandam enim magis civitatem nostram quam minuendam esse censemus: C., 7, 15, 2Iust. A. Iuliano pp. : Si quis servo suo libertatem imponat sive in ecclesia sive ad qualecumque tribunal vel apud eum, qui libertatem imponere legibus habet licentiam, sive in testamento vel alio ultimo elogio directam vel fideicommissariam, nullo coartetur modo eorum qui ad libertatem veniunt aetatem requirere. neque enim eum tantummodo civitatem Romanam adipisci volumus, qui maior triginta annis extitit, sed quemadmodum in ecclesiasticis libertatibus non est huiusmodi aetatis differentia, ita in omnibus libertatibus, quae a dominis imponuntur sive in extremis dispositionibus sive per iudices vel alio legitimo modo, hoc observari sancimus, ut sint omnes cives Romani constituti: ampliandam enim magis civitatem nostram quam minuendam esse censemus (a. 530).). Nella stessa direzione va il celebre discorso che in Dion. Hal., 4, 23, 1-3Ἀχθομένων δὲ τῶν πατρικίων ἐπὶ τῷ πράγματι καὶ δυσανασχετούντων συγκαλέσας τὸ πλῆθος εἰς ἐκκλησίαν. Πρῶτον μὲν θαυμάζειν, ἔφη, τῶν ἀγανακτούντων, εἰ τῇ φύσει τὸ ἐλεύθερον οἴονται τοῦ δούλου διαφέρειν, ἀλλ’ οὐ τῇ τύχῃ· ἔπειτ’ εἰ μὴ τοῖς ἤθεσι καὶ τοῖς τρόποις ἐξετάζουσι τοὺς ἀξίους τῶν καλῶν, ἀλλὰ ταῖς συντυχίαις, ὁρῶντες ὡς ἀστάθμητόν ἐστι πρᾶγμα εὐτυχία καὶ ἀγχίστροφον, καὶ οὐδενὶ ῥᾴδιον εἰπεῖν οὐδὲ τῶν πάνυ μακαρίων μέχρι τίνος αὐτῷ παρέσται χρόνου. [2] παρέσται χρόνου. ἠξίου τ’ αὐτοὺς σκοπεῖν, ὅσαι μὲν ἤδη πόλεις ἐκ δουλείας μετέβαλον εἰς ἐλευθερίαν βάρἤδη πόλεις ἐκ δουλείας μετέβαλον εἰς ἐλευθερίαν βάρβαροί τε καὶ Ἑλληνίδες, ὅσαι δ’ εἰς δουλείαν ἐξ ἐλευθερίας· εὐήθειάν τε πολλὴν αὐτῶν κατεγίνωσκεν, εἰ τῆς ἐλευθερίας τοῖς ἀξίοις τῶν θεραπόντων μεταδιδόντες, τῆς πολιτείας φθονοῦσι· συνεβούλευέ τ’ αὐτοῖς, εἰ μὲν πονηροὺς νομίζουσι, μὴ ποιεῖν ἐλευθέρους, εἰ δὲ χρηστούς, μὴ περιορᾶν ὄντας ἀλλοτρίους. [3] ἄτοπόν τε πρᾶγμα ποιεῖν αὐτοὺς ἔφη καὶ ἀμαθὲς ἅπασι τοῖς ξένοις ἐπιτρέποντας τῆς πόλεως μετέχειν καὶ μὴ διακρίνοντας αὐτῶν τὰς τύχας μηδ’ εἴ τινες ἐκ δούλων ἐγένοντο ἐλεύθεροι πολυπραγμονοῦντας, τοὺς δὲ παρὰ σφίσι δεδουλευκότας ἀναξίους ἡγεῖσθαι ταύτης τῆς χάριτος· φρονήσει τε διαφέρειν οἰομένους τῶν ἄλλων οὐδὲ τὰ ἐν ποσὶ καὶ κοινότατα ὁρᾶν ἔφασκεν, ἃ καὶ τοῖς φαυλοτάτοις εἶναι πρόδηλα, ὅτι τοῖς μὲν δεσπόταις πολλὴ φροντὶς ἔσται τοῦ μὴ προχείρως τινὰς ἐλευθεροῦν, ὡς τὰ μέγιστα τῶν ἐν ἀνθρώποις ἀγαθῶν οἷς ἔτυχε δωρησομένοις· τοῖς δὲ δούλοις ἔτι μείζων ὑπάρξει προθυμία χρηστοῖς εἶναι περὶ τοὺς δεσπότας, ἐὰν μάθωσιν, ὅτι τῆς ἐλευθερίας ἄξιοι κριθέντες εὐδαίμονος εὐθέως καὶ μεγάλης ἔσονται πολῖται πόλεως δαίμονος εὐθέως καὶ μεγάλης ἔσονται πολῖται πόλεως, καὶ ταῦθ’ ἕξουσιν ἀμφότερα παρὰ τῶν δεσποτῶν τἀγαθά. è fatto pronunciare al re Servio Tullio, attribuendogli retrospettivamente argomenti della pubblicistica augustea (cfr. per tutti Venturini [1984] 2456-2458 e, più di recente, H. Mouritsen, The Freedman in the Roman World, Cambridge, 2011, 32-33), imperniati sull’equazione meriti – civitas, o per meglio dire sull’idea che la civitas dovesse essere il premio di un’affrancazione davvero meritoria (cfr. § 1: ἔπειτ’ εἰ μὴ τοῖς ἤθεσι καὶ τοῖς τρόποις ἐξετάζουσι τοὺς ἀξίους τῶν καλῶν; § 2: συνεβούλευέ τ’ αὐτοῖς, εἰ μὲν πονηροὺς νομίζουσι, μὴ ποιεῖν ἐλευθέρους; § 3: ὅτι τοῖς μὲν δεσπόταις πολλὴ φροντὶς ἔσται τοῦ μὴ προχείρως τινὰς ἐλευθεροῦν, ὡς τὰ μέγιστα τῶν ἐν ἀνθρώποις ἀγαθῶν οἷς ἔτυχε δωρησομένοις).
[c] Entro questo quadro, il sistema disegnato dalla lex Aelia Sentia mostra una intrinseca coerenza. A un estremo il legislatore pone infatti quegli schiavi reputati immeritevoli per definizione di accedere alla cittadinanza (ossia gli schiavi di condotta turpe), escludendoli da questo traguardo per così dire sine die (vd. al § 2.2.1 lett. [b]). All’estremo opposto stanno invece quegli schiavi che potevano accedere alla civitas (in quanto minori di trent’anni) solo a condizione che ne venissero vagliate o la particolare vicinanza al manomissore (per ragioni di sangue, di discepolato di affetto o di fiducia) o le particolari benemerenze acquisite (vd. §§ 2.3.1 lett. [b] e 2.4.1 lett. [b]). Nel mezzo stavano infine quegli schiavi (con più di trent’anni) la cui meritevolezza era ritenuta comprovata dal fatto di aver trascorso un periodo significativo di servitù senza macchiarsi di particolari colpe.
L’equazione proposta da ultimo – trent’anni di età come indice di un periodo significativamente lungo di servitù – può aiutare a superare le resistenze di parte della storiografia a considerare la lex Aelia Sentia come un capitolo della legislazione morale augustea (vd. sopra al § 1 lett. [c]). Va infatti considerato che con il principato di Augusto iniziava ad avviarsi al tramonto la lunga stagione dell’illimitato approvvigionamento servile legato alle guerre di conquista (cfr. Alfödi, Storia sociale cit., 191). Sicché è logico pensare che il legislatore guardasse innanzitutto a quell’altra grande voce della demografia servile che era rappresentata dalla naturale riproduzione delle famiglie di schiavi (cfr. W. Scheidel, «The Roman Slave Supply», in K. Bradley – P. Cartledge [eds.], The Cambridge World History of Slavery I: The ancient Mediterranean World, Cambridge, 2011, 306-308). Quanto invece alla componente – anch’essa non trascurabile - rappresentata dal mercato delle persone libere che accettavano di farsi vendere da terzi per compartecipare al prezzo di acquisto, occorre considerare che il valore mediamente piuttosto elevato dell’investimento (cfr. ancora Alfödy, op. cit., 190-191) doveva comunque essere compensato da un congruo periodo di servitù. Sicché, in questo ambito, l’eventualità di manomissioni poco ponderate doveva destare minori preoccupazioni.
2.5. - Norme complementari
2.5.1. - Composizione e funzionamento del consilium
[a] La composizione del consilium chiamato ad autorizzare la manumissio (vindicta), che un proprietario volesse disporre prima che un manomesso o lo stesso manomissore avesse raggiunto l’età legale, variava a seconda che si trattasse del consilium urbano o di quelli provinciali: il primo era composto da cinque senatori e cinque cavalieri; il secondo da venti recuperatores cittadini Romani (Gaius, Inst., 1, 20Consilium autem adhibetur in urbe Roma quidem quinque senatorum et quinque equitum Romanorum puberum, in provinciis autem viginti recuperatorum civium Romanorum. idque fit ultimo die conventus; sed Romae certis diebus apud consilium manumittuntur. maiores vero triginta annorum servi semper manumitti solent, adeo ut vel in transitu manumittantur, veluti cum praetor aut pro consule in balneum vel in theatrum eat.). Quanto ai recuperatores, è ragionevole credere che alla nomina attendesse il governatore provinciale e che i nominati decadessero decaduto quest’ultimo. Quanto invece ai membri del consilium urbano, non si ha notizia di come fossero selezionati i cinque nominativi e di quale fosse la durata della carica.
[b] Per quanto attiene alle regole di funzionamento, è noto (sempre grazie a Gaius, Inst., 1, 20) che una differenza ulteriore si dava tra il consilium urbano e quelli provinciali. Mentre il primo operava certis diebus, i secondi si potevano adire ultimo die conventus, dunque in coda alle assise giudiziarie che i singoli governatori tenevano nelle varie sedi delle loro provincie. Per i consilia provinciali la legge (ammesso che la disposizione risalisse alla stessa lex Aelia Sentia) aveva dunque scelto di adattarsi alla varietà dei calendari giudiziari locali.
[c] Una differenza di funzionamento ulteriore era poi rappresentata dal fatto che il consilium provinciale doveva essere presieduto dal solo governatore, mentre quello urbano da uno qualunque dei magistrati cum imperio, consoli o pretori (cfr. D., 40, 2, 5Iul. 42 dig. : An apud se manumittere possit is qui consilium praebeat, saepe quaesitum est. ego, qui meminissem Iavolenum praeceptorem meum et in Africa et in Syria servos suos manumississe, cum consilium praeberet, exemplum eius secutus et in praetura et [in ins. Kr.] consulatu meo quosdam ex servis meis vindicta liberavi et quibusdam praetoribus consulentibus me idem suasi., da cui si desume che il giurista Giuliano presiedette il consilium et in praetura et consulatu: cfr. W. Kunkel, Die römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung2, 1967, rist., Köln–Weimar–Wien, 2001, 157). Date le difficioltà poste dal testo tràdito di D., 1, 10, 1, 2Ulp. 2 de off. cons. : Consules apud se servos suos manumittere posse nulla dubitatio est. sed si evenerit, ut minor viginti annis consul sit, apud se manumittere non poterit, cum ipse sit, qui ex [sententia corr. Hotm.] consilii causam examinat: apud collegam vero causa probata potest., è tuttavia dubbio che dal brano possa dedursi che la competenza dei consoli si sia aggiunta solo in un secondo momento, ex senatusconsulto, a quella che la lex Aelia Sentia affidava in esclusiva al pretore urbano: cfr. M. Wlassak, «Der Gerichts-Magistrat im gesezlichen Spruchverfahren», in ZSS, 28, 1907, 51-52 nt. 3.
2.5.2. - Anniculi causae probatio
[a] Gli schiavi minori di trent’anni, che fossero stati manomessi senza la prescritta approvazione del consilium, potevano regolarizzare la propria posizione, nel senso di conseguire iusta libertas e cittadinanza romana, facendo verificare di avere avuto un figlio di almeno un anno. Per il buon esito del procedimento di verifica – a cui i giuristi si riferivano con l’espressione anniculi filii causam probare (cfr. Gaius, Inst., 1, 32) – dovevano darsi in capo al manomesso tre condizioni cumulative: (1) aver preso in moglie una Romana oppure una Latina coloniaria oppure una affrancata della loro stessa condizione, (2) avere fatto testare l’unione da sette testimoni cittadini Romani puberi, (3) avere procreato con la moglie un figlio, sopravvissuto appunto per almeno un anno (cfr. Gaius, Inst., 1, 29Statim enim ex lege Aelia Sentia cautum est, ut minores triginta annorum manumissi et Latini facti si uxores duxerint vel cives Romanas vel Latinas coloniarias vel eiusdem condicionis, cuius et ipsi essent, idque testati fuerint adhibitis non minus quam septem testibus civibus Romanis puberibus et filium procreaverint, cum is filius anniculus esse coeperit, datur eis potestas per eam legem adire praetorem vel in provinciis praesidem provinciae et adprobare se ex lege Aelia Sentia uxorem duxisse et ex ea filium anniculum habere. et si is, apud quem causa probata est, id ita esse pronuntiaverit, tunc et ipse Latinus et uxor eius, si et ipsa eiusdem <condicionis sit, et filius eius, si et ipse eiusdem> condicionis sit, cives Romani esse iubentur. e Tit. Vlp., 3, 3Liberis ius Quiritium consequitur Latinus, qui minor triginta annorum manumissionis tempore fuit: nam lege Iunia cautum est, ut, si civem Romanam vel Latinam uxorem duxerit, testatione interposita, quod liberorum quaerendorum causa uxorem duxerit, postea filio filiave nato natave et anniculo facto, possit apud praetorem vel praesidem provinciae causam probare et fieri civis Romanus, tam ipse quam filius filiave eius et uxor; scilicet si et ipsa Latina sit; nam si uxor civis Romana sit, partus quoque civis Romanus est ex senatus consulto, quod auctore divo Hadriano factum est., ).
La probatio dell’anniculi causa competeva al pretore urbano o al governatore provinciale, i quali provvedevano tramite edictum (cfr. THerc.2, n. 89, scr. ext., pag. 5, l. 10-15Descriptum e[t recognitum ex] / edicto L(uci) Serv[eni Gall]ì pr(aetoris), quo[d propo]= / situm erat Ro[mae in] foro Aug[usto sub] / porticu Iulia a[d col]umnam ̣ [-ante] / tribunal eìus, [in quo sc]riptum e[rat id] / quod ìnfra s[c]r[iptum] est: / L(ucius) Servenius Gallu[s pr(aetor) dicit]: / M(arcus) Ofellius Magn[us Ti(berius) C]rassius Firm[us IIviri?] / e[x] municipio He[rculan(eorum) d]ecretu[m ad me] / rettulerunt [in quo decurio]nes e [lege] / Aelia Sentia cau[sam probav]issent [L(uci) Venidi En]= / nychi et Livia[e Actes,] quod [filiam ex se] / [natam] ann[iculam haberent ex iusto matrimonio,] / [it]aque, [eo]ru[m? causa probata, Romani cives] / [mi]hì esse vide[ntur]. / [Act(um)] XI k(alendas) A[pril(es)] /P(ublio) Mario L(ucio) A[finio] Gallo [co(n)s(ulibus)].). Per i beneficiari domiciliati in municipia e coloniae (quantomeno in Italia: cfr. sempre THerc.2, n. 89, e forse Riccardi Frg. [RS., I n. 34] col. II, l. 1-4 (**À ENCODER**) nella lettura di Troiano [2019] 284-287 e López Barja de Quiroga [forthcoming]), la procedura coinvolgeva tuttavia l’assemblea decurionale, alla quale era demandata l’istruttoria della causa, che il magistrato avrebbe poi sostanzialmente ratificato (cfr. Camodeca [2006] 74-84).
[b] L’anniculi causae probatio tradisce un interesse demografico di fondo, che è certamente in linea con una serie di tendenze generali della legislazione augustea del periodo (così da ult. W. Broekaert, «Between coercion and compulsion? The impact of occupations and economic interests on the relational status of slaves and freedmen», in S.R. Huebner – Ch. Laes [eds.] The Single Life in the Roman and Later Roman World, Cambridge, 2019, 95-101; un accenno nello stesso senso anche in Rainer [2021] 96). Non è tuttavia da escludere che attraverso questa procedura la lex Aelia Sentia avesse come obiettivo specifico di permettere agli schiavi minori di trent’anni manomessi testamento di regolarizzare la loro posizione.
[b1] Per mettere meglio a fuoco l’ipotesi ora presentata, va considerato che la manumissio testamento era strutturalmente incompatibile con la procedura, istituita dalla legge, che permetteva agli schiavi al di sotto dell’età legale minima di essere manomessi davanti al magistrato presidente del consilium, dopo che il consilium stesso avesse approvato la causa della manumissio. Le peculiarità del modus relativo all’età dei manomessi, facevano dunque sì che lo schiavo minorenne affrancato testamento si vedesse automaticamente preclusa la possibilità di accedere a una iusta libertas. E’ dunque possibile che, nelle intenzioni del legislatore, quel merito particolare, che lo schiavo minorenne avrebbe magari anche potuto vantare nei confronti del dominus, ma che sarebbe stato impossibile verificare prima della manumissio stessa, fosse supplito dal merito pubblico di aver costituito un nucleo familiare, fruttificato da una prole legittima che avesse superato il periodo di più alta mortalità infantile (cfr. Camodeca [2006] 79).
[b2] La funzione correttiva, ora prospettata, dell’anniculi causae probatio potrebbe oltretutto spiegare la posizione (sia pure minoritaria) di quei giuristi che reputavano nulla una manumissio vindicta cui il dominus avesse proceduto senza passare preliminarmente apud consilium (vd. § 4.2.4 lett. [d2-3]). In un caso del genere si sarebbe potuto in effetti argomentare che al dominus era comunque data facoltà di emendare l’errore, facendo quel che era invece impossibile facesse un defunto, vale a dire di ripetere la manomissione secondo la procedura corretta. E questa argomentazione poteva a sua volta confermare, agli occhi di questi giuristi, che il silenzio del legislatore fosse un segno inequivocabile del fatto che l’in libertate esse voluntate domini valesse per i soli schiavi a cui la legge espressamente attribuiva questa condizione, vale a dire gli schiavi minorenni manomessi testamento.
[c] Nelle fonti giuridiche la procedura dell’anniculi causae probatio è ricondotta ora alla lex Aelia Sentia (cfr. THerc.2, n. 89, scr. ext., pag. 5, l. 10-11À VÉRIFIER e Gaius, Inst., 1, 29Statim enim ex lege Aelia Sentia cautum est, ut minores triginta annorum manumissi et Latini facti si uxores duxerint vel cives Romanas vel Latinas coloniarias vel eiusdem condicionis, cuius et ipsi essent, idque testati fuerint adhibitis non minus quam septem testibus civibus Romanis puberibus et filium procreaverint, cum is filius anniculus esse coeperit, datur eis potestas per eam legem adire praetorem vel in provinciis praesidem provinciae et adprobare se ex lege Aelia Sentia uxorem duxisse et ex ea filium anniculum habere. et si is, apud quem causa probata est, id ita esse pronuntiaverit, tunc et ipse Latinus et uxor eius, si et ipsa eiusdem <condicionis sit, et filius eius, si et ipse eiusdem> condicionis sit, cives Romani esse iubentur.) ora alla lex Iunia Norbana (cfr. Tit. Vlp., 3, 3Liberis ius Quiritium consequitur Latinus, qui minor triginta annorum manumissionis tempore fuit: nam lege Iunia cautum est, ut, si civem Romanam vel Latinam uxorem duxerit, testatione interposita, quod liberorum quaerendorum causa uxorem duxerit, postea filio filiave nato natave et anniculo facto, possit apud praetorem vel praesidem provinciae causam probare et fieri civis Romanus, tam ipse quam filius filiave eius et uxor; scilicet si et ipsa Latina sit; nam si uxor civis Romana sit, partus quoque civis Romanus est ex senatus consulto, quod auctore divo Hadriano factum est.). A volte la sola lex Aelia Sentia (cfr. Tit. Vlp., 7, 4In potestate parentum sunt etiam hi liberi, quorum causa probata est, per errorem contracto matrimonio inter disparis condicionis personas: nam seu civis Romanus Latinam aut peregrinam vel eam, quae dediticiorum numero est, quasi per ignorantiam uxorem duxerit, sive civis Romana per errorem peregrino vel ei, qui dediticiorum numero est, aut etiam quasi Latino ex lege Aelia Sentia nupta fuerit, causa probata, civitas Romana datur tam liberis quam parentibus, praeter eos, qui dediticiorum numero sunt; et ex eo fiunt in potestate parentum liberi., ), altre volte le due leggi congiuntamente (cfr. Gaius, Inst., 1, 80Eadem ratione ex contrario ex Latino et cive Romana, sive ex lege Aelia Sentia sive aliter contractum fuerit matrimonium, civis Romanus nascitur. fuerunt tamen, qui putaverunt ex lege Aelia Sentia contracto matrimonio Latinum nasci, quia videtur eo casu per legem Aeliam Sentiam et Iuniam conubium inter eos dari -- et semper conubium efficit, ut qui nascitur patris condicioni accedat --, aliter vero contracto matrimonio eum qui nascitur iure gentium matris condicionem sequi et ob id esse civem Romanum. sed hoc iure utimur ex senatus consulto, quo auctore divo Hadriano significatur, ut quoquo modo ex Latino et cive Romana natus civis Romanus nascatur.Gaius, Inst., ) sono poi richiamate a proposito del valore dei matrimoni richiesti dall’anniculi causae probatio. Questa apparente discrasia si può conciliare solo supponendo che quando la procedura venne introdotta, grazie alla lex Aelia Sentia, essa riguardasse i soli schiavi minori di trent’anni manomessi iuste ac legitime e che la lex Iunia abbia più tardi ripreso e fatto suo il meccanismo, a vantaggio degli schiavi minorenni manomessi inter amicos (vd. notice n° 490, § 3.1.3).
[c1] La possibilità di mettere meglio a fuoco i contenuti del caput relativo della lex Aelia Sentia sconta tuttavia le difficoltà di precisare che cosa prevedesse la legge nel caput precedente, a proposito dell’inosservanza del modus relativo all’età minima dei manomessi. Se la legge, come pare, disciplinava espressamente il solo caso degli schiavi manomessi testamento, e non anche quello degli schiavi manomessi vindicta (vd. § 4.2.2 lett. [c-d]), è poco plausibile che il caput sull’anniculi causae probatio si riferisse poi esplicitamente a entrambe le categorie di affrancati. Anziché insistere sulle modalità della manomissione, è dunque verosimile che la legge si limitasse in questo caso a riprendere la formula utilizzata a proposito della condizione attribuita agli schiavi affrancati al di fuori della procedura del consilium, riferendosi cioè a quell’in libertate morari voluntate domini che la legge stessa riconosceva ai manomessi testamento e la maggioranza dei giuristi estendeva ai minorenni manomessi vindicta ma senza la preliminare adprobatio del consilium (con una formulazione, per es., del tipo «Qui ex servis minoribus triginta annorum ex hac lege in libertate sunt eruntve voluntate domini» et rell.).
[c2] Va inoltre precisato che il fatto che la lex Iunia abbia ripreso (secondo l’ipotesi più probabile) le misure sull’anniculi causae probatio, per estenderle agli schiavi minorenni manomessi inter amicos, non si può omologare come il frutto di una perfetta parità di situazioni e dunque di ratio. Rispetto agli schiavi manomessi testamento (oltre che vindicta, ma non apud consilium) l’anniculi causae probatio rimuoveva certamente un ostacolo di diritto pubblico (rappresentato dalla mancata adprobatio della causa manumissionis). Per il resto la procedura dava però pieno corso alla volontà del manomissore, nelle cui intenzioni l’affrancazione doveva appunto produrre l’acquisto congiunto di libertas e civitas. Le condizioni di partenza di una manumissio inter amicos erano invece ben diverse, nel senso che il proprietario, che si risolveva a manomettere informalmente un proprio schiavo, lo faceva, di norma, nella deliberata intenzione di non concedere al manomesso significativi margini di autonomia patrimoniale, così da riservarsi ogni aspettativa sui bona dello stesso, una volta che il manomesso fosse deceduto (vd. Pellecchi [forthcoming] §§ 3 e 5). Nel momento in cui la civitas, attraverso la lex Iunia, concedeva a quello stesso manomesso di avvalersi dell’anniculi causae probatio e per questa via di accedere alla iusta libertas e fruire delle condizioni anche patrimonialmente più favorevoli di liberto Romano, si venivano dunque a comprimere e a sacrificare le ragioni dei patroni, per motivi di pubblica utilità (vd. nello stesso senso Venturini [2000] 184-185 e E. Koops, «Masters and Freedmen: Junian Latins and the Struggle for Citizenship», in S. De Benoist – G. De Kleijn [eds.] Integration in Rome and in the Roman World, Leiden – Boston, 2014, 123-124).
2.5.3. - Professiones liberorum
[a] Alcuni papiri documentali di origine egiziana (in forma ora di semplici testationes ora di rescripta et recognita da albi pubblici) attestano professiones di nascita dei figli, presentate ai sensi delle leges Aelia Sentia e Papia Poppeae (cfr. per es. Cavenaile, n° 148, scr. ext., l. 18-20L. Iulius Vestinus praef(ectus) Aeg(ypti) / nomina eorum qui e lege Pap(ia) / [P]opp(aea) et Aelia Sentia liberos apud / [s]e natos sibi professi sunt proposu(it) / P. Mario L. Afinio Gallo cos. / XV K(alendas) Augustas.: nomina eorum qui e lege Pap(ia) [P]opp(aea) et Aelia Sentia liberos apud [s]e [scil. il praefectus Aegypti] natos sibi professi sunt). Rimane peraltro incerto se le leggi in questione imponessero un obbligo di registrazione dei figli (così López Barja de Quiroga [2007] 78, sul presupposto che la lex Aelia Sentia intendesse in questo modo precostituire le condizioni per un agevole riscontro del compimento dell’età minima richiesta ai manomissori) oppure se disciplinassero una facoltà che i privati erano liberi di esercitare, nel cao volessero precostituirsi un’agevole prova delle condizioni più favorevoli che entrambe le leggi prevedevano per chi avesse procreato dei figli.
[b] Anche accedendo a questa seconda ipotesi, sembra ad ogni modo da escludere che le norme in questione della lex Aelia Sentia prevedessero una disciplina molto rigida a carico degli orbi; disciplina che secondo alcuni studiosi sarebbe stata prevista nel testo originario della legge e immediatamente sospesa a fronte delle accese reazioni suscitate, fintanto che una sua versione mitigata non venne introdotta nove anni più tardi, appunto con la lex Papia Poppaea. Questa tesi – avanzata da V. Arangio Ruiz, «La legislazione», in AA.VV.Augustus. Studi in occasione del bimillenario augusteo , Roma, 1938, 139-140, ripresa poi da T. Spagnuolo Vigorita, Casta Domus3, Napoli, 2010, 71-74, oltre che da D. Wardle, «Suetonius on the Legislation of Augustus», in Fundamina, 21, 2015, 192 e nt. 41 (sia pure con qualche fraintendimento) – presuppone l’esegesi di Dio, 56, 7, 3ἐς τοῦθ’ ὑπαχθείη, ἐννόμως αὐτὸ ποιοίη. καὶ οὐδὲ ἐς ταῦτα μέντοι κατήπειξα ὑμᾶς, ἀλλὰ τὸ μὲν πρῶτον τρία ἔτη ὅλα πρὸς παρασκευὴν ὑμῖν ἔδωκα, τὸ δὲ δεύτερον δύο. ἀλλ’ οὐδὲν οὐδ’οὕτως οὔτ’ ἀπειλῶν οὔτε προτρέπων οὔτ’ ἀναβαλλόμενος οὔτε δεό μενός τι πεποίηκα. proposta a suo tempo da P. Jörs, «Die Ehegesetze des Augustus», in P. Jörs – E. Schwartz – R. Reitzenstein (Hrsg.), Festschrift Th. Mommsen, Marburg, 1893, 55, 59-60; esegesi discutibile in sé e resa ulteriormente problematica dalla recente scoperta della lex municipi Troesmensium: cfr. per tutti Moreau, «Le commentarius de la lex Troesmensium» cit. 657-659.
Allo stato attuale delle fonti, l’unica disciplina della lex Aelia Sentia che prevedesse un regime di maggior favore, per chi avesse avuto una prole legittima, risulta essere dunque quella dell’anniculi causae probatio; procedura in relazione alla quale non sorprende perciò di trovare esemplari di testationes relative alla nascita di figli: cfr. THerc.2, n. 5 + 99C. Velleio Paterculo M. Manilio Vopisco c[os.] / VIII k(alendas) Aug(ustas) / L. Venidius Ennycgus testatus est / sibi filiam natam esse ex Livia / Acte uxore sua. / Ac[tum Herculani]., nell’edizione e con il commento di Camodeca (2006) 79-84.
[c] Alla regola della professio in albo – fosse essa prevista come obbligo o come facoltà – si accompagnava peraltro una disposizione di carattere negativo, con la quale si vietava la professio dei figli illegittimi (cfr. Cavenaile, n° 162, col. I, l. 3-4Sempronia Gemella t(utore) a(uctore) C. Iulio Satur- / nino testata est eos qui signaturi / erant se enixam esse ex in- / certo patre XII Kal. A]prel(es) q(uae) p(roximae) f(uerunt) / natos masculinos geminos eosque/ uocetari M. M. Sempronios Sp. filios / Sarapionem et Socrationem / ideoque se has testationes in- / terposuisse dixit quia lex / Aelia Sentia et Papia Poppaea / spurios spuriasue in albo profiteri / uetat.: lex Aelia Sentia et Papia Poppaea spurios spuriasve in albo profiteri vetat; Cavenaile, n° 161, scr. ext., l. 7-8[Camerino et] Nigro co(n)s(ulibus) / [loco Pselchi a]d hib(erna) coh(ortis) s(upra) s(criptae) / [anno XXII I]mp(eratoris) Caesaris Traiani / [Hadriani A]ug(usti) et uocari eum Numis- / [ium at]que se testari ex lege / [A(elia)] S(entia) / et Papia{e}] Poppaea{e} quae de filis / [procreandi]s latae sunt nec potuisse se [profiteri prop]ter distri{n}ctionem militiae.Cavenaile, : atque se testari ex lege Aelia Sentia et Papia Poppaeae quae de filis procreandis latae sunt nec potuisse se profiteri propter distrinctionem militiae).
[d] La portata esatta e la genesi del divieto non sono chiare. Quanto alla portata, l’opinione tradizionale è che del figlio illegittimo fosse vietata la professio tout court; sicché per la nascita dei figli spurii madri o padri naturali non avrebbero potuto ricorrere altro che a semplici testationes private, dal valore probatorio meno saldo (vd. per tutti G. Geraci, «Le dichiarazioni di nascita e di morte a Roma e nelle province», in MEFRA, 113/II, 2001, 684). Vi è però anche chi ha sostenuto che ad essere vietata non fosse la professio in actis, ma la sola professio in albo (per ragioni per così dire di moralità pubblica: cfr. C. Sánchez-Moreno Ellart, Professio liberorum. Las declaraciones y los registros de nacimientos en Derecho Romano, con especial atención a las fuentes papirológicas, Madrid 2001, 166-170).
Quanto alla genesi del divieto, sembra da escludere che un sistema di registrazione pubblica delle nascite abbia dovuto attendere il 4 d.C. (cfr. sempre Geraci, «Le dichiarazioni» cit., 677-679). Ciò posto, il fatto che i capita sui modus manumittendi avessero privato alcune categorie di persone di quel conubium di cui avevano goduto fino alla lex Aelia Sentia (privazione assoluta per gli schiavi di condotta turpe manomessi: vd. § 2.2.1 lett. [e], privazione relativa per gli schiavi minori di trent’anni manomessi testamento o senza la adprobatio del consilium: vd. § 2.5.2 lett. [a]) rende plausibile che la legge avesse ribadito un divieto risalente di profiteri in album, relativo ai figli illegittimi.
2.6. - Manomissioni in frode alle ragioni di creditori e patroni
2.6.1. - Capita
[a] Il blocco delle disposizioni che articolavano i modus manumittendi prevedeva un gruppo ulteriore di capita, indubbiamente di minor impatto sociale rispetto ai precedenti (vd. § 2.1), la cui funzione era di tutelare le legittime aspettative dei terzi sul patrimonio del manomissore; aspettative che potevano essere compromesse dalla rinuncia alla proprietà dello schiavo.
[b] In via generale era vietata la manomissione realizzata in frode ai creditori e patroni, e con ogni probabilità senza fare distinzioni tra manumissio vindicta e manumissio testamento (cfr. M.G. Zoz de Biasio, «L’invalidità delle manumissioni in frode al patrono disposte inter vivos», in Iura, 33, 1982, 131–135). I creditori erano tutelati in ragione della garanzia che il patrimonio del debitore dava loro di rivalersi dei crediti insoluti, aggredendolo nelle forme della bonorum venditio. I patroni erano invece tutelati in ragione delle aspettative che l’editto assicurava loro sui patrimoni dei liberti che fossero morti senza lasciare come eredi propri figli legittimi (e a partire dal 9 d.C. senza lasciarne nel numero previsto dalla lex Papia Poppeae per i liberti detti centenarii : vd. notice n° 449, § 9).
[b1] Alle manomissioni fraudolente la legge faceva senz’altro riferimento in termini proibitivi (cfr. D., 40, 9, 16, 2Paul. 3 ad l. Aeliam Sentiam : Ne quis creditorum fraudandorum causa servum manumittat, hac lege cavetur: creditores autem appellantur, quibus quacumque ex causa actio cum fraudatore competat.: ne quis creditorum fraudandorum causa servum manumittat, hac lege cavetur; Tit. Vlp., 1, 15: eadem lex in fraudem creditoris et patroni manumittere prohibet). E’ da questo tipo di formulazione – piuttosto che da una improbabile formulazione del caput in termini di «statuizione di nullità» (come vorrebbe invece D. Tuzov, «La nullità per legem nell’esperienza romana. Un’ipotesi in materia di leges perfectae», in RIDA, 56, 2009, 184-185, sulla base della parafrasi offerta in Gaius, Inst., 1, 47In summa sciendum est, <quod> lege Aelia Sentia cautum sit, ut creditorum fraudandorum causa manumissi liberi non fiant, hoc etiam ad peregrinos pertinere - senatus ita censuit ex auctoritate Hadriani -, cetera vero iura eius legis ad peregrinos non pertinere., discusso sotto al § 2.6.3 lett. [b]) – che i giuristi derivavano la totale inefficacia della manomissione con cui si fosse disatteso il divieto (cfr. G. Impallomeni, «In tema di manumissioni fraudolente» [1964] ora in Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 106 e nt. 22, anche per il censimento delle diverse locuzioni con cui i giuristi esprimevano la cosa). Trattandosi di una nullità che poteva farsi valere in primo luogo – e ovviamente - da creditori e patroni del manomissore, ma non esclusivamente da loro (cfr. sempre Impallomeni, op. cit., 107-108), la legge era inquadrabile, per questo suo caput, come una lex perfecta.
[b2] Se la lex Aelia Sentia distingueva tra creditori e patroni, era in ragione, verosimilmente, delle difficoltà che si sarebbero date a inquadrare come diritti di credito le aspettative dei patroni sui bona libertorum. Quanto alle operae promesse dai liberti, i patroni erano infatti già tutelati come creditori a pieno titolo, e dunque, da questo punto di vista (a dispetto di quanto affermato da Fabre [1981] 73) la loro menzione nella legge non sarebbe stata necessaria.
E’ però impossibile dire se creditori e patroni fossero contemplati come due categorie separate in due distinti capita della legge, oppure se il caput fosse unico e presentasse quella formulazione alternativa che si legge in alcune sintesi istituzionali (cfr. Gaius, Inst., 1, 37Nam is, qui in fraudem creditorum vel in fraudem patroni manumittit, nihil agit, quia lex Aelia Sentia inpedit libertatem.: in fraudem creditorum vel in fraudem patroni; Tit. Vlp., 1, 15Eadem lex in fraudem creditoris et patroni manumittere prohibet.: in fraudem creditoris et patroni; cfr. anche Gaius, Inst., 1, 139Nec tamen in hoc casu lex Aelia Sentia locum habet. itaque nihil requirimus, cuius sit is qui manumittit et qui manumittitur; ac ne illud quidem, an patronum creditoremve manumissor habeat; ac ne numerus quidem lege Fufia Caninia finitus in his personis locum habet.). Il problema è complicato dalle scelte compilatorie di Giustiniano, il quale nelle Istituzioni eliminò il riferimento alla fraus patroni e nel Digesto mantenne solo un esiguo numero di frammenti riferibili a questa fattispecie (vd. meglio al § 4.2 lett. [d]).
[c] In deroga al divieto di non pregiudicare la garanzia patrimoniale dei creditori, un caput ulteriore consentiva che un debitore insolvente, privo di altri eredi testamentari, manomettesse un proprio schiavo e contestualmente lo istituisse erede, in modo da fare ricadere sulla sua persona l’infamia della procedura esecutiva (cfr. Tit. Vlp., 1, 14Ab eo domino, qui solvendo non est, servus testamento liber esse iussus et heres institutus, etsi minor sit triginta annis, vel in ea causa sit, ut dediticius fieri debeat, civis Romanus et heres fit, si tamen alius ex eo testamento nemo heres sit. Quod si duo pluresve liberi heredesque esse iussi sint, primo loco scriptus liber et heres fit: quod et ipsum lex Aelia Sentia facit.: in fraudem creditoris et patroni: Ab eo domino, qui solvendo non est, servus testamento liber esse iussus et heres institutus […] civis Romanus et heres fit, si tamen alius ex eo testamento nemo heres sit; cfr. inoltre Inst., 1, 6, 1Licet autem domino, qui solvendo non est, testamento servum suum cum libertate heredem instituere, ut fiat liber heresque ei solus et necessarius, si modo nemo alius ex eo testamento heres extiterit, aut quia nemo heres scriptus sit, aut quia is qui scriptus est qualibet ex causa heres non extiterit. idque eadem lege Aelia Sentia provisum est et recte: valde enim prospiciendum erat, ut egentes homines, quibus alius heres extaturus non esset, vel servum suum necessarium heredem habeant, qui satisfacturus esset creditoribus, aut hoc eo non faciente creditores res hereditarias servi nomine vendant, ne iniuria defunctus afficiatur., anche a integrazione del lacunoso Gaius, Inst., 1, 21Praeterea minor triginta annorum servus manumissus potest civis Romanus fieri, si ab eo domino, qui solvendo non erat, testamento eum liberum et heredem relictum ......(24)....). In questo caso specifico la manumissio era perciò pienamente efficace, sia sul piano della libertas sia su quello della civitas Romana (vd. oltre lett. [c2]), essendo del resto quest’ultima condizione indispensabile per attribuire allo schiavo affrancato la testamenti factio passiva.
[c1] La legge doveva inoltre precisare che, qualora i servi istituiti cum libertate fossero stati più di uno, la manumissio sarebbe stata valida solo con riferimento a quello primo loco scriptus (cfr. sempre Tit. Vlp., 1, 14: quod si duo pluresve liberi heredesque esse iussi sint, primo loco scriptus liber et heres fit: quod et ipsum lex Aelia Sentia facit; cfr. inoltre D., 28, 5, 61Cels. 29 dig. : Qui solvendo non erat, servum primo loco et alterum servum secundo loco heredes scripsit. solus is qui primo loco scriptus est hereditatem capit: nam lege Aelia Sentia ita cavetur, ut, si duo pluresve ex eadem causa heredes scripti sint, uti quisque primus scriptus sit, heres sit., insieme alla casistica discussa in D., 28, 5, 56Paul. 1 ad l. Aeliam Sentiam: Si is qui solvendo non est primo loco Stichum, secundo eum cui ex fideicommissi causa libertatem debet liberum et heredem instituerit, Neratius secundo loco scriptum heredem fore ait, quia non videtur creditorum fraudandorum causa manumissus. e D., 28, 5, 60.3Cels. 16 dig. : Cum quis ex institutis, qui non cum aliquo coniunctim institutus sit, heres non est, pars eius omnibus pro portionibus hereditariis adcrescit, neque refert, primo loco quis institutus an alicui substitutus heres sit.).
[c2] Se si presta fede all’esposizione di Tit. Vlp., 1, 14Ab eo domino, qui solvendo non est, servus testamento liber esse iussus et heres institutus, etsi minor sit triginta annis, vel in ea causa sit, ut dediticius fieri debeat, civis Romanus et heres fit, si tamen alius ex eo testamento nemo heres sit. Quod si duo pluresve liberi heredesque esse iussi sint, primo loco scriptus liber et heres fit: quod et ipsum lex Aelia Sentia facit., è infine probabile che la legge si coordinasse con le altre norme relative ai modus manumittendi, dichiarandone la disapplicazione nel caso di specie: lo schiavo istituito erede cum libertate acquistava perciò la civitas Romana anche se di condotta turpe o minore di trent’anni (etsi minor sit triginta annis, vel in ea causa sit, ut dediticius fieri debeat […] quod et ipsum lex Aelia Sentia facit); lo stesso se il manomissore aveva meno di vent’anni (cfr. D., 40, 4, 27Paul. 1 ad l. Aeliam Sentiam : Qui potuerint apud consilium manumittendo ad libertatem perducere, possunt etiam necessarium heredem facere, ut haec ipsa necessitas probabilem faciat manumissionem., pur se rimane aperto il dubbio che in quest’ultimo caso si sia trattato di una estensione giurisprudenziale: cfr. G. Impallomeni, Le manomissioni mortis causa. Studi sulle fonti autoritative romane, Padova, 1963, 128). E’ poi certo che la disapplicazione - anche ammesso che in un secondo momento non la si fosse revocata ex senatoconsulto quanto agli schiavi minori di trent’anni: vd. § 4.2. lett. [b2] - valeva soltanto per le disposizioni della lex Aelia Sentia: se l’acquisto della libertas Romana fosse stato impedito ex alia lege, la manomissione restava perciò senza effetto (cfr. D., 28, 5, 84, pr.Scaev. 18 quaest.: Si non lex Aelia Sentia, sed alia lex vel senatus consultum aut etiam constitutio servi libertatem impediat, is necessarius fieri non potest, etiamsi non sit solvendo testator.).
2.6.2. - Ratio
[a] Il divieto di manomettere in frode alle ragioni dei creditori risulta giustificato nelle fonti giuridiche con formule che evocano l’esigenza di salvaguardare la fides delle relazioni contrattuali (cfr. Theoph., 1, 6, pr.Ἐδίδαξεν ἡμᾶς τὰ προλαβόντα κατὰ πόσους τρόπους γίνεται ἡ ἐλευθερία. νῦν ἀναγκαῖόν ἐστι μαθεῖν ὅτι οὐ παντὶ δεσπότῃ παρέχειν ἔξεστιν ἐλευθερίαν. ὁ γὰρ IN FRAUDEM CREDITORUM, τουτέστι πρὸς βλάβην καὶ ἀπάτην τῶν δανειστῶν, ἐλευθερῶν οὐδὲν πράττει. ὁ γὰρ AELIOS SENTIOS ἐμποδίζει τῇ ἐλευθερίᾳ· μισεῖ γὰρ τοὺς ἐπὶ βλάβῃ τὴν οἰκείαν μειοῦντας περιουσίαν ἐκείνων οἳ ἐν καιρῷ ἀναγκαίῳ αὐτοῖς δεηθεῖσιν ἐχορήγησαν χρήματα. αὐτὸς δὲ ὁ ταῦτα κελεύσας δέδωκέ τισιν ἄδειαν τοῦ ἐλευθεροῦν, εἰ καὶ ἐλαττοῦται ἐντεῦθεν αὐτῶν ἡ περιουσία, τουτέστι τοῖς ἀπόροις. ἄπορος δέ ἐστιν ᾧ μηδὲν ὑπολιμπάνεται μετὰ τὴν τῶν χρεῶν ἐξαίρεσιν. ἢ οὕτως· ἄπορός ἐστιν ὁ πλείονα ἐποφείλων ὧν κέκτηται. ὁ τοίνυν ἄπορος ἐν πολλῇ καθεστήκει ἀθυμίᾳ, λογιζόμενος οὐχ οὕτως τὰ ἐν ζωῇ ἐπαχθῆ, ἅπερ ἐσθ’ ὅτε κει ἀθυμίᾳ, λογιζόμενος οὐχ οὕτως τὰ ἐν ζωῇ ἐπαχθῆ, ἅπερ ἐσθ’ ὅτε ἠδύνατο τρόποις τισὶ διαφυγεῖν, ἀλλὰ τὰ μετὰ τελευτὴν ἐνθυμούμενος καὶ τὴν προσγενησομένην αὐτῷ ὕβριν. οὐδεὶς γὰρ ἀνέξεται τῶν εὖ φρονούντων προσελθεῖν κληρονομίᾳ ἐξ ἧς κέρδος μὲν οὐδὲν τῷ ADITEUONTI, ὕβρεις δὲ μυρίαι καὶ ζημίαι καὶ οἱ ἐπὶ δικαστήριον ἑλκυσμοί. μηδενὸς οὖν ὑπεισιόντος τῇ τούτου κληρονομίᾳ ἀνάγκη διαπιπράσκεσθαι ὑπὸ τῶν δανειστῶν τὴν αὐτοῦ περιουσίαν, καὶ ἐντεῦθεν τὴν αὐτοῦ μνήμην εὐτελίζεσθαι. οἱ γὰρ CREDITORES οὐκέτι λέγουσιν ὅτι «τὰ τοῦδε διαπιπράσκεται πράγματα τοῦ κληρονόμου», ἀλλὰ «τοῦδε τοῦ τελευτήσαντος».: μισεῖ γὰρ τοὺς ἐπὶ βλάβῃ τὴν οἰκείαν μειοῦντας περιουσίαν ἐκείνων οἳ ἐν καιρῷ ἀναγκαίῳ αὐτοῖς δεηθεῖσιν ἐχορήγησαν χρήματα). Si tratta di una giustificazione che trascende lo specifico delle manomissioni, e la cui eco non stupisce perciò di trovare nei passi dei giuristi classici (per es. D., 42, 8, 19Pap. 11 resp. : Patrem, qui non exspectata morte sua fideicommissum hereditatis maternae filio soluto potestate restituit omissa ratione Falcidiae, plenam fidem ac debitam pietatem secutus exhibitionis, respondi non creditores fraudasse. e D., 42, 8, 20Call. 2 quaest. : Debitorem, qui ex senatus consulto Trebelliano totam hereditatem restituit, placet non videri in fraudem creditorum alienasse portionem, quam retinere potuisset, sed magis fideliter facere.) a commento degli strumenti approntati dal pretore per revocare (in generale) «quae fraudationis causa gesta erunt» (per come si esprimeva il § 225 dell’editto perpetuo [secondo la ricostruzione di Lenel, Das Edictum cit.]; formula simile al § 268). Il caput in questione – per quanto si possa considerare anch’esso, a pieno titolo, espressione della forte tensione morale che ispira questa sezione della lex Aelia Sentia (vd. § 2.4.3 lett. [c]), e la legge nel suo complesso (vd. § 3.1) – in concreto non faceva in effetti altro che perfezionare il sistema di tutela pretorio (e ciò a prescindere dalla questione, su cui non si registra una completa unanimità di vedute, se rientrasse nelle possibilità del magistrato di annullare gli effetti di una manomissione; problema discusso in particolare quanto alla restitutio in integrum ob fraudem: cfr. per tutti G. Grevesmühl, Die Gläubigeranfechtung nach klassischem römischen Recht, Göttingen, 2003, 78, con la bibl. ivi citata).
[b] Pur nel silenzio determinato dalla selezione giustinianea delle fonti classiche (vd. § 4.2 lett. [d]), considerazioni analoghe valgono per il divieto di manomettere in frode alle ragioni dei patroni. Anche questo divieto andava infatti a completare la tutela revocatoria che l’editto pretorio già assicurava ai patroni di fronte alle donazioni mortis causa e alle alienazioni fraudolente che avessero fatto scendere il patrimonio del liberto sotto la soglia della portio debita (cfr. in gen. C. Masi Doria, Bona libertorum. Regimi giuridici e realtà sociali, Napoli, 1996, 180-224).
[c] La facoltà del debitore insolvente di lasciare come heres necessarius uno dei propri schiavi è giustificata da Giustiniano (che mantenne la disposizione: § 4.2) con l’esigenza di evitare l’infamia alla memoria del defunto (cfr. Inst., 1, 6, 1Licet autem domino, qui solvendo non est, testamento servum suum cum libertate heredem instituere, ut fiat liber heresque ei solus et necessarius, si modo nemo alius ex eo testamento heres extiterit, aut quia nemo heres scriptus sit, aut quia is qui scriptus est qualibet ex causa heres non extiterit. idque eadem lege Aelia Sentia provisum est et recte: valde enim prospiciendum erat, ut egentes homines, quibus alius heres extaturus non esset, vel servum suum necessarium heredem habeant, qui satisfacturus esset creditoribus, aut hoc eo non faciente creditores res hereditarias servi nomine vendant, ne iniuria defunctus afficiatur.: ne iniuria defunctus afficiatur). Il fatto che l’infamia venisse così a cadere sulla persona del manomesso, nel caso non fosse riuscito a pagare i creditori o a raggiungere con loro un concordato, era certo compensato dal vantaggio della libertas (come rimarca Theoph., 1, 6, 1Λέγει τοίνυν τῷ ἀπόρῳ ὁ AELIOS SENTIOS ὥστε, εἰ ἔχει οἰκέτας, ἕνα τούτων γράψει κληρονόμον CUM LIBERTATE, ὃς μετὰ τελευτὴν γενήσεται αὐτῷ κληρονόμος ἐξ ἀνάγκης, καλούμενος SOLOS NECESSARIOS. SOLOS μὲν ἐπειδὴ ἕνα καὶ μόνον καὶ οὐ περαιτέρω ἔξεστι τῷ ἀπόρῳ γράφειν κληρο νόμον· μέχρι γὰρ ἑνὸς τὴν οἰκείαν παραχαράττει νομοθεσίαν. NECESSARIOS δὲ ἐπειδὴ καὶ μὴ βουλόμενος γίνεται κληρονόμος. ἐγίνετο δὲ οὗτος κληρονόμος ἑτέρου μὴ κληρονομοῦντος ἀπὸ διαθήκης, ἢ διὰ τὸ ἕτερον μὴ γεγράφθαι ἢ ἐπειδὴ ὁ γεγραμμένος οὐκ ἠβούλετο κληρονομῆσαι. Μεγίστης γὰρ ἦν τοῦτο προμηθείας τοῦ νόμου, ὥστε τοὺς ἀπόρους, ὧν ἕκαστος παρῃτεῖτο τὴν κληρονομίαν, ὑπὸ οἰκέτου αὐτοῦ κληρονομεῖσθαι, ὃς ἤμελλε τὸ ἱκανὸν τοῖς CREDITORSI ποιεῖν καὶ τὸ χρέος αὐτοῖς ἀποπληροῦν. ἤ, τούτου μὴ γενομένου, τὰ πράγματα διεπιπράσκετο οὐκέτι τοῦ τελευτή τούτου μὴ γενομένου, τὰ πράγματα διεπιπράσκετο οὐκέτι τοῦ τελευτήσαντος ἀλλὰ τοῦ κληρονόμου· καὶ ἐντεῦθεν τὸ ἀνύβριστον τῷ τελευτήσαντι περιεγίνετο. καὶ ἑκάτερος εὐηργετεῖτο, καὶ ὁ τελευτήσας καὶ ὁ ἀπελεύθερος·ὁ γὰρ ἄπορος εἰ καὶ εἰς τὴν τοῦ οἰκέτου διατίμησιν ἠλάττωσε τὴν οἰκείαν περιουσίαν, ἀλλ’ οὖν ὕβριν διέφυγεν· ὁ δὲ οἰκέτης εἰ καὶ ὑβρίσθη, ἀλλὰ μισθὸν ἔσχε τῆς ὕβρεως τὴν ἐλευθερίαν.: ὁ δὲ οἰκέτης εἰ καὶ ὑβρίσθη, ἀλλὰ μισθὸν ἔσχε τῆς ὕβρεως τὴν ἐλευθερίαν). Il vantaggio per il manomesso (e ovviamente per il buon nome del defunto manomissore) era tuttavia assicurato a scapito di una compressione degli interessi dei creditori; compressione che il legislatore deve aver evidentemente valutato, nella specificità del caso, come un sacrificio necessario.
2.6.3. - Sovrapposizioni con la libertas Latina
[a] Quello di una sovrapposizione tra libertas Latina e divieto di manomettere in frode alle ragioni di creditori e patroni è tema che si può porre da due diversi punti di vista, entrambi condizionati dalla povertà della base testuale di partenza. Li si può riassumere nei due interrogativi seguenti. In primo luogo, se il divieto valesse anche per manomissioni diverse da quelle iustae ac legitimae, e dunque anche per la manumissio inter amicos. In secondo luogo, se il divieto valesse quando a manomettere fosse stato un liberto non Romano, ma Latino.
[b] Con riferimento alla domanda se il divieto di manomettere in frode alle ragioni dei creditori valesse anche per le manomissioni disposte dal proprietario in forma diversa dalle tre affrancazioni iustae ac legitimae codificate dal ius civile (censu, vindicta, testamento), occorre partire dall’informazione resa in Gaius, Inst., 1, 47In summa sciendum est, <quod> lege Aelia Sentia cautum sit, ut creditorum fraudandorum causa manumissi liberi non fiant, hoc etiam ad peregrinos pertinere - senatus ita censuit ex auctoritate Hadriani -, cetera vero iura eius legis ad peregrinos non pertinere., vale a dire che era questa la sola disposizione della lex Aelia Sentia che trovava applicazione nei confronti anche delle manomissioni disposte da proprietari stranieri (in summa sciendum est, quod lege Aelia Sentia cautum sit, ut creditorum fraudandorum causa manumissi liberi non fiant, hoc etiam ad peregrinos pertinere […], cetera vero iura eius legis ad peregrinos non pertinere).
Le modalità e le tempistiche di questa estensione non sono chiaramente precisabili, complice anche lo stato non pacifico della tradizione testuale. Nel manoscritto Veronese delle Istituzioni di Gaio, a commento dell’osservazione che il divieto di manomettere in frode ai creditori si applicava anche ai peregrini, si legge la precisazione seguente: «senatus ita censuit ex auctoritate Hadriani». La precisazione si presenta come un inciso inserito senza connettivi e tra due proposizioni infinitive coordinate, secondo uno stile che non ha paralleli in Gaio e che induceva perciò Mommsen a espungere la frase come un glossema (cfr. «Die Kaiserbezeichnung bei den römischen Juristen» [1870] ora in Gesammelte Schriften, II/2, Berlin, 1905, 156). Scelte editoriali più prudenti (cfr. M. David – H.L.W. Nelson, Gai Institutionum Commentarii IV: mit philologischem Kommentar, I, Leiden, 1954, 64-65) non tolgono che è difficile credere che un senatoconsulto non databile, giocoforza, prima del 117 d.C. possa avere segnato una svolta radicale rispetto alla disciplina praticata in passato. Se così fosse, si dovrebbe infatti concedere che per oltre un secolo, di fronte alla migliore condizione ottenuta grazie alla lex Aelia Sentia dai creditori di un debitore romano, il pretore non abbia avvertito l’esigenza o non abbia comunque avuto la possibilità di pareggiare a questa condizione la condizione dei creditori (anche romani) di un debitore straniero. In secondo luogo, va osservato che quando il magistrato prometteva di tutelare la libertà di fatto degli schiavi liberati da proprietari stranieri, lo faceva a condizione che l’affrancazione non violasse la legge patria del manomissore (cfr. Ps. Dosith., Frg. iur., 12(Peregrinus manumittens servum) non potest ad Latinum perducere, quia lex Iunia, quae Latinorum genus introduxit, non pertinet ad peregrinos manumissores, sicut et Octavenus probat. Praetor non permittet manumissum servire, nisi alias lege peregrina caveatur.: praetor non permittet manumissum servire nisi alias lege pergrina caveatur). Di conseguenza, se l’ordinamento di rinvio vietava le affrancazioni disposte da un debitore insolvibile, anche la tuitio del pretore sarebbe stata esclusa. Sicché non è da escludere che l’intervento del senato, sollecitato da Adriano, si riferisse a un caso particolare in cui mancava la possibilità di agganciarsi alla legge di rinvio.
[c] Le manomissioni disposte da proprietari stranieri erano manomissioni approntate al di fuori delle solennità che caratterizzavano le affrancazioni iustae ac legitimae. E’ perciò da ritenere che così come non si riconoscevano effetti alle prime, se disposte da debitori insolventi, allo stesso modo non si riconoscessero effetti alle manomissioni inter amicos, se a effettuarle fossero stati cittadini romani parimenti insolventi. Né è necessario pensare che tale principio sia stato formalizzato in qualche caput legislativo specifico, della lex Iunia (sul presupposto che questo provvedimento abbia seguito cronologicamente la lex Aelia Sentia) oppure della stessa lex Aelia Sentia (nell’ipotesi opposta). La lex Iunia garantiva infatti la libertas Latina solo a condizione che le persone che in libertate morabant voluntate dominii si trovassero in una condizione che non escludeva la tuitio pretoria (vd. Ps. Dosith., Frg. iur., 8Similiter, ut possit habere servus libertatem, talis esse debet, ut praetor sive proconsul libertatem tueatur. Nam et hoc lege Iunia tutatum est. Sunt autem plures causae, in quibus non tueatur proconsul manumissionem, de quibus procedentes ostendemus. e notice n° 490, § 2.2). Se perciò già l’editto dichiarava che al curator bonorum o al bonorum emptor non sarebbe stata preclusa la vindicatio in servitutem degli schiavi che fossero stati manomessi informalmente in fraudem creditorum, allora si doveva considerare, per relationem, che ai manomessi in questione fosse preclusa la stessa libertas Latina.
[d] Quanto alla seconda domanda – se la disciplina della lex Aelia Sentia si applicasse anche nel caso in cui a manomettere (informalmente) fosse stato non un padrone Romano (ingenuus o liberto che fosse), ma un liberto Latino – va detto che essa è parte del problema più generale delle capacità dispositive dei Latini Iuniani; problema che sembra da risolvere nel senso che a costoro fossero preclusi in radice gli atti a titolo gratuito, comprese quindi le manomissioni (vd. Pellecchi [forthcoming] § 10). Sembrerebbe dunque da escludere che per questa parte della lex Aelia Sentia potesse porsi un problema di estensione della norma alla classe dei liberti Latini.
3. - Iura patronatus
3.1. - Premessa
Alla disciplina dei modus manumittendi la lex Aelia Sentia univa la regolamentazione di alcuni aspetti qualificanti delle relazioni che s’instauravano tra il liberto e il manomissore (e i suoi congiunti); relazioni che a prescindere dalla varietà delle fonti normative, su cui l’una o l’altra poggiavano, i giuristi riassumevano sotto la comune etichetta di iura patronatus (cfr. B. Albanese, Le persone nel diritto provato romano, Palermo, 1979, 63-96).
Nei libri quattuor ad legem Aelia Sentiam, scritti in età severiana da Ulpiano, l’analisi delle norme dedicate ai modus manumittendi precede quella dedicata agli iura patronatus (cfr. Lenel, Palingenesia cit., II, coll. 930-931: gli escerti superstiti riconducibili al primo polo occupano i primi due libri [frr. 1933-1935 L.]; a uno degli iura patronatus si riferisce invece l’unico escerto del quarto [fr. 1936 L.]). Nonostante le difficoltà di spiegare la ripresa dei modus manumittendi nell’ultimo libro (per una ipotesi vd. Bisio [2020] 174) è possibile che la stessa ripartizione di base fosse stata adottata anche da Paolo per il suo commentario (cfr. Lenel, op. cit., I, coll. 1120-1121: ai modus manumittendi si riferiscono infatti gli escerti del primo libro [frr. 910-914 L.], mentre l’unico escerto superstite del secondo libro [fr. 915 L.] pertiene a uno degli iura patronatus).
La sistematica adottata dai giuristi severiani rende plausibile che anche la lex Aelia Sentia adottasse la medesima sequenza ed offre comunque la riprova che gli antichi ritenevano di poter riassumere i contenuti della legge intorno alle due polarità indicate (vd. § 1 lett. [a]). Da parte della storiografia moderna non si può dire tuttavia che la sezione segli iura patronatus sia stata indagata con altrettanta attenzione di quella riservata ai modus manumittendi (cfr. e.g. le sintesi di López Barja de Quiroga [2007] 76-78 e di Maouritsen [2016] 407-410; fanno eccezione due tesi di dottorato: Tilson [1986] 251-258 e Bisio [2020] 56-71). Soprattutto è mancato lo sforzo di includere tutti i capita della seconda sezione in una valutazione sugli intendimenti e la logica di fondo della lex Aelia Sentia.
Questa situazione è il prodotto, in certa misura, della base testuale che si offre allo studioso moderno. Non solo nelle fonti letterarie trovano molta maggior risonanza i modus manummitendi, ma le relative norme sono le sole a interessare l’opera alla quale dobbiamo la rappresentazione più densa e coesa della lex Aelia Sentia. In ragione di una sistematica che concede uno spazio limitato al diritto di patronato, le norme relative della lex Aelia Sentia non entrano insomma nelle Istituzioni di Gaio (né nelle parti note delle altre opere pregiustinianee). Ad esse si può accedere solo per il tramite di alcuni riferimenti – non cospicui e per lo più indiretti - offerti dalle compilazioni di Giustiniano, specie dal Digesto. E proprio alla peculiare natura di quest’unico canale di trasmissione si devono due conseguenze ulteriori, che concorrono a impoverire il quadro delle nostre conoscenze. In primo luogo, quando Giustiniano fa sua una certa regola della lex Aelia Sentia, lo fa solo da un punto di vista sostanziale, calando cioè la regola entro un quadro procedimentale totalmente riformato rispetto a quello cui doveva guardare la legge; quadro originario che rimane così inaccessibile (vd. § 3.5 lett. [b]). In secondo luogo, l’abolizione della libertas Latina, disposta dallo stesso Giustiniano alla vigilia della compilazione del Digesto, ha orientato la selezione in modo tale che riesce impossibile sapere se, ed eventualmente in quale misura, queste norme della lex Aelia Sentia si ripercuotessero sulla condizione dei liberti Latini (vd. §§ 3.3 lett. [e], 3.4 lett. [e], 3.5 lett. [d]).
Al netto di tutte queste difficoltà il panorama che si può allestire attraverso il Digesto (e in misura minore attraverso il Codice) è quello di un gruppo di capita, da un lato, volti a ottenere dal manomissore una serie di comportamenti che fossero socialmente ed economicamente coerenti con il nuovo status attribuito al liberto (§§ 3.2-4) e, dall’altro lato, volti a ricordare al manomesso il rispetto quasi filiale dovuto al patrono (§ 3.5). Ciò si sposa con la funzione di fondo dei capita relativi al modus manumittendi e conferma la profonda impronta morale che ispirò la lex Aelia Sentia.
3.2. - Corresponsione degli alimenti al liberto bisognoso
[a] La lex Aelia Sentia operò per rafforzare il principio – d’origine verosimilmente consuetudinaria e legato al carattere quasi familiare del rapporto di patronato (cfr. Albanese, Le persone cit., 95) - che imponeva al manomissore di mantenere il manomesso indigente. Il principio era tuttavia rafforzato in via soltanto indiretta, comminando la decadenza del manomissore recalcitrante dai diritti che gli spettavano in quanto patrono (il che ha portato a qualificare la situazione in termini di onere, a fronte del vero e proprio obbligo alimentare in favore del patrono indigente, che si venne invece riconoscendo a carico del liberto, indipendentemente dalle disposizioni della lex Aelia Sentia: cfr. M.G. Zoz, «Rapporti di patronato: la interpretazione giurisprudenziale in tema di alimenti», in Studi in onore di A. Metro, VI, Milano, 2010, 549-553).
[b] Complice anche l’intersezione che si dava tra alimenta ed esecuzione dell’obligatio operarum (cfr. D., 38, 1, 18-20, pr.Paul. 40 ad ed. : Suo victu vestituque operas praestare debere libertum Sabinus ad edictum praetoris urbani libro quinto scribit: quod si alere se non possit, praestanda ei a patrono alimenta: Gai. 14 ad ed. provinc. : aut certe ita exigendae sunt ab eo operae, ut his quoque diebus, quibus operas edat, satis temp[oris corr. Kuebl.] ad quaestum faciendum, unde ali possit, habeat: Paul. 40 ad ed. : quod nisi fiat, praetorem ipsam patrono denegaturum operarum praestationem: idque est verum, quia unusquisque, quod spopondit, suo impendio dare debet, quamdiu id quod debet in rerum natura est. e D., 38, 1, 33Iav. 6 ex Cass. : Imponi operae ita, ut ipse libertus se alat, non possunt., su cui vd. da ult. Bisio [2020] 65 con bibl.), non è peraltro chiarissimo in quali termini la legge sanzionasse il patrono inottemperante. Da un lato, i giuristi attribuiscono infatti alla legislazione imperiale la perdita del patronato in quanto tale (cfr. D., 37, 14, 5, 1: imperatoris nostri [scil. Caracalla] rescripto cavetur, ut, si patronus libertum suum non aluerit, ius patroni perdat). Dall’altro lato, sempre i giuristi riconducono alla lex Aelia Sentia la decadenza sia dal diritto di esigere le operae sia dalle aspettative successorie, civili e pretorie, che non trovassero la loro fonte nel testamento del liberto (cfr. D., 38, 2, 33: si patronus non aluerit libertum, lex Aelia Sentia adimit eius libertatis causa imposita tam ipsi, quam ei [corr. Momms.] ad quem ea res pertinet, item hereditatem ipsi et liberis eius, nisi heres institutus sit, et bonorum possessionem praeterquam secundum tabulas; cfr. anche D., 25, 3, 6, pr.Mod. l. s. de manumiss. : Alimenta liberto petente non praestando patronus amissione libertatis causa impositorum et hereditatis liberti punietur: non autem necesse habebit praestare, etiamsi potest.). E’ perciò possibile che il dettato della legge si limitasse a operae e bona e fosse stato via via esteso alle altre voci che componevano il fascio dei diritti che il manomissore (insieme in alcuni casi ai suoi congiunti) vantava verso il manomesso.
[c] Nelle fonti giuridiche non è dato trovare indicazioni esplicite delle ragioni della norma. E’ verosimile che la condizione di liberto (Romano) non precludesse l’accesso alle frumentationes (cfr. P. López Barja de Quiroga [forthcoming]; diversamente Bisio [2020] 66, nella scia di C. Virlouvet, Tessera frumentaria. Les procédures de la distribution du blé public à Rome à la fin de la république et au début de l’empire, Rome, 1995, 48 e 55). E’ possibile perciò che il legislatore volesse evitare di accollare alla sola civitas l’onere della sopravvivenza dei neocittadini di condizione libertina. Tuttavia, che il patrono non potesse disinteressarsi delle difficoltà del liberto era principio che si inscriveva nella fides reciproca che governava il rapporto di patronato e che trovava espressione in norme reputate antichissime (si pensi alla lex romulea che imponeva al patrono di offrire assistenza al liberto: cfr. Dion. Hal., 2, 10, 1Ἦν δὲ τὰ ὑπ’ ἐκείνου τότε ὁρισθέντα καὶ μέχρι πολλοῦ παραμείναντα χρόνου Ῥωμαίοις ἔθη περὶτὰς πατρωνείας τοιάδε· τοὺς μὲν πατρικίους ἔδει τοῖς ἑαυτῶν πελάταις ἐξηγεῖσθαι τὰ δίκαια, ὧν οὐκ εἶχον ἐκεῖνοι τὴν ἐπιστήμην, παρόντων τε αὐτῶν καὶ μὴ παρόντων τὸν αὐτὸν ἐπιμελεῖσθαι τρόπον ἅπαντα πράττοντας, ὅσα περὶ παίδων πράττουσι πατέρες, εἰς χρημάτων τε καὶ τῶν περὶ χρήματα συμβολαίων λόγον· δίκας τε ὑπὲρ τῶν πελατῶν ἀδικουμένων λαγχάνειν, εἴ τις βλάπτοιτο περὶ τὰ συμβόλαια, καὶ τοῖς ἐγκαλοῦσιν ὑπέχειν· ὡς δὲ ὀλίγα περὶ πολλῶν ἄν τις ἐγκαλοῦσιν ὑπέχειν· ὡς δὲ ὀλίγα περὶ πολλῶν ἄν τις εἴποι πᾶσαν αὐτοῖς εἰρήνην τῶν τε ἰδίων καὶ τῶν κοινῶν πραγμάτων, ἧς μάλιστα ἐδέοντο, παρέχειν.). Altrettanto e forse addirittura più plausibile (guardando alla funzione di altri capita di questa sezione della legge) è perciò che l’intenzione fosse quella di richiamare i manomissori alla serietà e importanza del loro atto.
3.3. - Divieto di imporre al manomesso il giuramento di non sposarsi
[a] La lex Aelia Sentia vietava di imporre alla liberta manomessa il giuramento di non sposarsi (ne nubat). Divieto analogo era fatto quanto al liberto maschio, ma è incerto in questo caso quale fosse di preciso la formulazione della legge, dato che, come è stato rilevato (Bisio [2020] 193-195), alcuni passi di Giuliano e Ulpiano (cfr. D., 38, 2, 24Iul. 65 dig. : Communi liberto si ex duobus patronis alter iusiurandum [adegerit corr. Cuj.] ne uxorem ducat, vel vivo liberto decesserit: is qui extra hanc culpam fuerit vel supervixerit partis utrique debitae bonorum possessionem solus habebit., D., 38, 16, 3, 5Ulp. 14 ad Sab. : Si quis libertam sic iureiurando adegit ‘ne illicite nubat’, non debere incidere in legem Aeliam Sentiam. sed si ‘intra certum tempus ne ducat’, ‘neve aliam, quam de qua patronus consenserit’ vel ‘non nisi conlibertam’ aut ‘patroni cognatam’, dicendum est incidere eum in legem Aeliam Sentiam nec ad legitimam hereditatem admitti. e D., 2, 4, 8, 2Ulp. 5 ad ed. : Sed si ad iusiurandum adegi, ne uxorem ducat, ne nubat, impune in ius vocabor. et Celsus quidem ait in tali liberto ius ad filium meum me vivo non transire: sed Iulianus contra scribit. plerique Iuliani sententiam probant. secundum quod eveniet, ut patronus quidem in ius vocetur, filius quasi innocens non vocetur.) attestano la formula ne uxorem ducat, mentre un brano di Paolo (D., 37, 14, 6, pr.Paul. 2 ad l. Aeliam Sentiam: Adigere iureiurando, ne nubat liberta vel [libertus ins. Momms.] liberos tollat, intellegitur etiam is, qui libertum iurare patitur. sed si ignorante eo suus filius adegerit stipulatus[ve ins. Momms.] fuerit, nihil ei nocebit: certe si iussu patroni is qui in potestate est idem fecerit, dicendum est eum hac lege teneri.) reca la formula ne liberos tollat e una costituzione di Giustiniano (C., 6, 4, 4, 5Εἰ δὲ καὶ ἀργύρια ἀντὶ τῶν ὑπηρεσιῶν ἐπερωτήσει ὁ πάτρων τὸν ἀπελεύθερον ἢ τὴν ἀπελευθέραν ἢ ὁρκώσει αὐτοὺς μὴ γῆμαι μηδὲ παιδοποιήσασθαι, καὶ οὗτος πάντων ἐκπίπτει τῶν πατρωνικῶν, ἐπειδὴ καὶ τὸ παλαιὸν καὶ τῶν ἀπὸ τοῦ δυοκαιδεκαδέλτου καὶ τῶν ἀπὸ τοῦ πραίτωρος πατρωνικῶν δικαίων ἐξέπιπτεν. (a. 531)) la formula μὴ παιδοποιἠσασθαι.
[b] Una norma simile compariva già nella lex Iulia de maritandis ordinibus (vd. notice n° 449, § 4.6), ma con conseguenze diverse nel caso il divieto fosse stato trasgredito. La lex Iulia incideva infatti sul piano del ius sacrum, disponendo la remissione del giuramento (cfr. D., 37, 14, 6, 3Paul. 2 ad l. Aeliam Sentiam: Si patronus libertam iureiurando adegerit, ut sibi nuberet, si quidem ducturus eam adegit, nihil contra legem fecisse videbitur: si vero non ducturus propter hoc solum adegit, ne alii nuberet, fraudem legi factam Iulianus ait et perinde patronum teneri, ac si coegisset iurare libertam non nupturam.: lege Iulia de maritandis ordinibus remittitur iusiurandum et rell.). La lex Aelia Sentia sanzionava invece il manomissore nei suoi diritti di patrono.
[c] Rimane tuttavia incerto se la lex Aelia Sentia dichiarasse la decadenza degli iura patronatus nel loro complesso, oppure se in relazione anche a questo divieto si debba immaginare una evoluzione simile a quella che si direbbe attestata per l’obbligo alimentare (vd. § precedente lett. [b]), per cui la giurisprudenza avrebbe preso le mosse da un caput che prevedeva la decadenza (forse) dal diritto alle operae e (sicuramente) dai bona (cfr. D., 38, 16, 3, 5 e D., 38, 2, 24) ed avrebbe suggerito di estenderne l’applicazione ad altre voci del diritto di patronato (cfr. D., 2, 4, 8, 2, a proposito della perdita dello scudo garantito dal pretore per l’in ius vocatio), fino ad arrivare a formulazioni di taglio generale e, apparentemente, onnicomprensivo (cfr. D., 37, 14, 15: qui contra legem Aeliam Sentiam ad iurandum libertum adegit, nihil iuris habet nec ipse nec liberi eius; cfr. anche C., 6, 4, 4, 5: ἐπειδὴ καὶ τὸ παλαιὸν καὶ τῶν ἀπὸ τοῦ δυοκαιδεκαδέλτου καὶ τῶν ἀπὸ τοῦ πραίτωρος πατρωνικῶν δικαίων ἐξέπιπτεν).
[d] E’ opinione comune che giuramenti di questo genere celassero la preoccupazione economica dei patroni di vedersi azzerate o ridotte le aspettative ereditarie sui bona dei liberti defunti, a causa di una discendenza legittima degli stessi (v. notice n° 449, § 4.6). Analoghe preoccupazioni potevano tuttavia nutrire i patroni, in alternativa, verso il diritto alle operae, data la norma della lex Iulia et Papia che decretava l’estinzione della relativa obligatio nel caso il liberto avesse avuto due figli legittimi in potestà (cfr. D., 38, 1, 37, pr.Paul. 2 ad leg. Iul. et Pap. : ‘Qui libertinus duos pluresve a se genitos natasve in sua potestate habebit praeter eum, qui artem ludicram fecerit quive operas suas ut cum bestiis pugnaret locaverit: ne quis eorum operas doni muneris aliudve quicquam libertatis causa patrono patronae liberisve eorum, de quibus iuraverit vel promiserit obligatusve erit, dare facere praestare debeto’.).
Nel sanzionare questi comportamenti è certamente possibile che la lex Aelia Sentia facesse sue quelle preoccupazioni demografiche che tanta parte hanno nella legislazione augustea. Va tuttavia rilevato che sul piano del diritto privato la coercizione della libertà matrimoniale altrui era comunque riprovata, in quanto contraria ai boni mores (vd. A.S. Scarcella, «Libertà matrimoniale e stipulatio poenae», in SDHI, 66, 2000, 147-164). La legge potrebbe perciò aver fatto suo questo principio morale di fondo, e insieme richiamato i patroni sul valore e le implicazioni della manomissione, che non si potevano manipolare a piacimento.
[e] La discendenza di un liberto Latino poteva compromettere le aspettative del manomissore grazie al meccanismo dell’anniculi causae probatio, applicato inizialmente ai manomessi di età inferiore ai trent’anni e poi esteso ai manomessi inter amicos in quanto tali (vd. notice n° 490, §§ 3.1.3, nonché supra § 4.2 lett. [a] e infra § 4.3 lett. [a]). Anche il patrono di un liberto Latino poteva dunque avere l’interesse d’imporre al manomesso il giuramento di non sposarsi (e/o di non avere figli). Vale perciò la stessa osservazione fatta per la norma relativa agli alimenta, e cioè che la sua trasgressione è possibile fosse sanzionata con la perdita del patronato anche nei confronti di chi avesse manomesso inter amicos.
3.4. - Divieto di mercedem capere pro operis
[a] La lex Aelia Sentia vietava al patrono di convertire in dazioni pecuniarie le operae liberti sui, vale a dire le giornate lavorative che il manomesso poteva impegnarsi a prestare attraverso iusiurandum o stipulatio (vd. per tutti E. Nicosia, «Promissio iurata liberti?», in AUPA, 56, 2013, 101-111).
[b] E’ tuttavia incerto (vd. per tutti Venturini [1984] 2466-2467, e ora M.J. Torres Parra, «La comercialización de las operae liberti en la lex Aelia Sentia», in Legal History Review, 28, 2018, 13-22) se la legge si riferisse alla condotta del patrono con l’espressione ‘mercedem capere a liberto pro operis’, che pure risulta commentata dai giuristi (cfr. D., 38, 1, 25, pr.Iul. 65 dig. : Patronus, qui operas liberti sui locat, non statim intellegendus est mercedem ab eo capere: sed hoc ex genere operarum, ex persona patroni atque liberti colligi debet. e D., 40, 9, 32, 2Clem. 8 ad leg. Iul. et Pap. : Is, qui operas aut in singulas eas certam summam promisit, ad hanc legem non pertinet, quoniam operas praestando potest liberari. idem Octavenus probat et adicit: obligare sibi libertum, ut mercedem operarum capiat, is intellegitur, qui hoc solum agit, ut utique mercedem capiat, etiamsi sub titulo operarum eam stipulatus fuerit.). Il problema si pone perché le ipotesi in cui poteva configurarsi una violazione del divieto erano essenzialmente due, e ciascuna presentava particolarità tali che l’espressione non risulta del tutto calzante né all’una né all’altra.
[b1] Il divieto di prendere denaro al posto delle operae poteva essere trasgredito innanzitutto quando il patrono faceva promettere al liberto non le operae, ma una prestazione pecuniaria pura e semplice (arg. da D., 40, 9, 32, 1-2Clem. 8 ad leg. Iul. et Pap. : Non prohibentur lege Aelia Sentia patroni a libertis mercedes capere, sed obligare eos: itaque si sponte sua libertus mercedem patrono praestiterit, nullum huius legis praemium consequetur. [2] Is, qui operas aut in singulas eas certam summam promisit, ad hanc legem non pertinet, quoniam operas praestando potest liberari. idem Octavenus probat et adicit: obligare sibi libertum, ut mercedem operarum capiat, is intellegitur, qui hoc solum agit, ut utique mercedem capiat, etiamsi sub titulo operarum eam stipulatus fuerit.). La seconda ipotesi si dava invece quando il patrono, dopo aver concluso una regolare stipulatio operarum, delegava il liberto a eseguire le operae in favore di un terzo, ricevendone in cambio un corrispettivo pecuniario (ipotesi che le fonti giuridiche condensano a sua volta nell’espressione operas liberti locare: cfr. e.g. D., 38, 1, 25, 1Iul. 65 dig. : Nam si quis pantomimum vel archimimum libertum habeat et eius mediocris patrimonii sit, ut non aliter operis eius uti possit quam locaverit eas, exigere magis operas quam mercedem capere existimandus est. e D., 38, 1, 25, 4Iul. 65 dig. :Nonnumquam autem ipsis libertis postulantibus patroni operas locant: quo facto pretium magis operarum quam mercedem capere existimandi sunt.).
[b2] Nel primo caso (stipulatio pecuniaria tra patrono e liberto) è il termine ‘merces’ a risultare un traslato, giustificato dal fatto che se il liberto s’impegnava a pagare, anziché a lavorare, era come se avesse versato al patrono un corrispettivo dei suoi servizi. Nel secondo caso (locazione a terzi dei servizi del liberto) va invece inteso in senso traslato che la mercede fosse corrisposta ‘a liberto’: in questo caso al pagamento provvedeva infatti il terzo, e il liberto accettava (da cui il traslato) la delegatio solvendi causa decisa dal patrono.
[c] Il patrono che trasgredisse il divieto era sanzionato con la perdita del patronato (oltre a C., 6, 4, 4, 5Εἰ δὲ καὶ ἀργύρια ἀντὶ τῶν ὑπηρεσιῶν ἐπερωτήσει ὁ πάτρων τὸν ἀπελεύθερον ἢ τὴν ἀπελευθέραν ἢ ὁρκώσει αὐτοὺς μὴ γῆμαι μηδὲ παιδοποιήσασθαι, καὶ οὗτος πάντων ἐκπίπτει τῶν πατρωνικῶν, ἐπειδὴ καὶ τὸ παλαιὸν καὶ τῶν ἀπὸ τοῦ δυοκαιδεκαδέλτου καὶ τῶν ἀπὸ τοῦ πραίτωρος πατρωνικῶν δικαίων ἐξέπιπτεν. (a. 531), cfr. D., 25, 3, 5, 22Ulp. 2 de off. cons. : Si quis a liberti liberto ali se desideret vel ab eo, quem ex causa fideicommissi manumisit quem[ve corr. Momms.] suis nummis redemit, non debet audiri, ut et Marcellus scribit, exaequatque eum, qui mercedes exigendo ius libertorum amisit.: ius libertorum amittere); ciò spiega perché la perdita, nella prospettiva del liberto, fosse rappresentabile anche come un praemium (cfr. D., 40, 9, 32, 1Clem. 8 ad leg. Iul. et Pap. : Non prohibentur lege Aelia Sentia patroni a libertis mercedes capere, sed obligare eos: itaque si sponte sua libertus mercedem patrono praestiterit, nullum huius legis praemium consequetur.).
[d] Nell’ipotesi che il patrono si fosse fatto promettere denaro, al posto delle operae, la sanzione della lex Aelia Sentia era dunque più incisiva della misura già prevista nell’editto del pretore (consistente nell’impedire al patrono l’esecuzione del contratto: cfr. i §§ 140 e 278 [secondo la ricostruzione propsta da Lenel, Das Edictum cit.], oltre che in part. D., 38, 1, 39, pr.Paul. 7 ad Plaut. : Si ita stipulatio a patrono facta sit: ‘si decem dierum operas non dederis, viginti nummos dare spondes?’ videndum est, an nec viginti actio danda sit, quasi onerandae libertatis gratia promissi sint, nec operarum, quae promissae non sint? an vero operae dumtaxat promissae fingi debeant, ne patronus omnimodo excludatur? et hoc praetor quoque sentit operas dumtaxat promissas.). Le misure della legge e dell’editto condividevano peraltro la medesima ratio, che era di evitare che il patrono approfittasse della propria posizione per vessare economicamente il liberto (cfr. la bibl. indicata da Venturini [1984] 2474-2474 e ntt. 38-39, il quale peraltro evidenzia anche l’obiettivo indirettamente dissuasivo, raggiunto in questo modo dalla legge, rispetto alle manomissioni stesse, rese meno convenienti per chi pensava di trarre un lucro dall’affrancazione). Il fatto che la legge mirasse a proteggere il liberto spiega perché il divieto non si considerasse integrato quando fosse stato il liberto stesso a proporre di convertire le operae promesse in denaro (cd. revenditio operarum) o ad offrirsi di svolgere i servizi promessi in favore di un terzo (D., 38, 1, 25, 4Iul. 65 dig. : Nonnumquam autem ipsis libertis postulantibus patroni operas locant: quo facto pretium magis operarum quam mercedem capere existimandi sunt.). Si deve tenere però presente che, nell’uno e nell’altro caso, il fatto di accettare il denaro implicava quella opzione per le operae che avrebbe poi precluso al patrono, ai sensi dell’editto pretorio, di chiedere alla morte del liberto la bonorum possessio contra tabulas o sine tabulis (cfr i nrr. 4-5 del § 150 dell’editto [secondo la ricostruzione di Lenel, Das Edictum cit.], nonché la bibl. raccolta in Pellecchi [forthcoming] § 9 nt. 90; ivi anche la critica alla diversa tesi di Masi Doria, Bona libertorum cit., 462 ss. e 475).
[e] Dato appunto che operae e bona costituivano due prerogative di cui i patroni dei liberti Romani potevano giovarsi alternativamente, per i patroni dei liberti Latini, ai quali la ex Iunial riservava automaticamente e integralmente i patrimoni dei liberti defunti (vd. notice n° 490, § 2.1.2 lett. [b]), sembra da escludere l’esistenza di un diritto concorrente alle operae (vd. Pellecchi [forthcoming] § 9). Ciò esclude che per questo caput della lex Aelia Sentia potesse porsi il problema di una sua applicazione estesa ai manomessi inter amicos.
3.5. - Accusatio ingrati liberti
[a] A fronte del numero più nutrito di capita che tutelavano il liberto dalle vessazioni del patrono o che richiamavano quest’ultimo al rispetto di alcuni doveri sociali basilari, la lex Aelia Sentia interveniva a carico anche del manomesso, prevedendo una procedura per accertare e sanzionare il liberto ingratus, che non sembra avesse alcun precedente (così per tutti De Francisci [1926] 300-301; non convince – nel merito e nelmetodo – la recente ipotesi di D. Roth, Revocatio in servitutem. Die rechtliche Beständigkeit der Freilassung vor dem Hintergrund der actio ingrati, Berlin, 2018, 99 ss., che fin dalle Dodici Tavole si conoscesse, sotto forma di actio iniuriarum, un trattamento sanzionatorio equivalente: cfr. R. Gamauf, «Besprechung von D. Roth, Revocatio in servitutem cit.», in ZSS, 137, 2020, 476-478).
Al di là del puntuale adempimento degli iura patronatus (operae, honor processuale e via dicendo: cfr. D., 40, 14, 6Ulp. 38 ad ed. : Quotiens de hoc contenditur, an quis libertus sit, sive operae petantur sive obsequium desideretur sive etiam famosa actio intendatur sive in ius vocetur qui se patronum dicit sive nulla causa interveniat, redditur praeiudicium. sed et quotiens quis libertinum quidem se confitetur, libertum autem Gaii Seii se negat, idem praeiudicium datur. redditur autem alterutro desiderante: sed actoris partibus semper qui se patronum dicit fungitur probareque libertum suum necesse habet aut, si non probet, vincitur.), era considerato ingrato il liberto che avesse mancato di rispetto al patrono, rifiutandogli il reverentiae debitae munus (cfr. C., 6, 6, 5Gord. A. Sulpiciae : Etiam liberis damnatorum consuetum obsequium libertos paternos praestare debere in dubium non venit. proinde si non agnoscunt reverentiae debitae munus, non immerito videntur ipsi adversus se provocare severitatem (a. 240).) oppure tradendone la fiducia postuma, per es. con il rifiuto di farsi carico della tutela o comunque della gestione del patrimonio del figlio (cfr. Sent. Paul., 1, 1b, 2: Ingratus libertus est, qui patrono obsequium non praestat, vel res eius filiorumve tutelam administrare detractat).
[b] La procedura per fare riconoscere il comportamento irriguardoso del liberto era introdotta da una accusatio, la legittimazione alla quale era tuttavia limitata dalla legge al patrono o al suo erede (cfr. D., 50, 16, 70Paul. 73 ad ed. : Sciendum est heredem etiam per multas successiones accipi. nam paucis speciebus ‘heredis’ appellatio proximum continet, veluti in substitutione impuberis ‘quisquis mihi heres erit, idem filio heres esto’, ubi heredis heres non continetur, quia incertus est. item in lege Aelia Sentia filius heres proximus potest libertum paternum ut ingratum accusare, non etiam si heredi heres exstiterit. idem dicitur in operarum exactione, ut filius heres exigere possit, non ex successione effectus. verba haec ‘is ad quem ea res pertinet’ sic intelleguntur, ut qui in universum dominium vel iure civili vel iure praetorio succedit, contineatur.). Resta invece totalmente nebulosa sia la forma del procedimento sia l’autorità chiamata a presiederlo (per alcune speculazioni vd. Wilinsky [1971] 565-566), prima che la competenza passasse al praefectus urbis e ai governatori di provincia, in forme senz’altro diverse dal iudicium publicum (cfr. D., 1, 12, 1, 10Ulp. l. s. de off. praef. urb. : Cum patronus contemni se a liberto dixerit vel contumeliosum sibi libertum queratur vel convicium se ab eo passum liberos[ve corr. Momms.] suos vel uxorem vel quid huic simile obicit: praefectus urbi adiri solet et pro modo querellae corrigere eum. aut comminari aut fustibus castigare aut ulterius procedere in poena eius solet: nam et puniendi plerumque sunt liberti. certe si se delatum a liberto vel conspirasse eum contra se cum inimicis doceat, etiam metalli poena in eum statui debet. e D., 37, 14, 1Ulp. 9 de off. procons. : Patronorum querellas adversus libertos praesides audire et non translaticie exsequi debent, cum, si ingratus libertus sit, non impune ferre eum oporteat. sed si quidem inofficiosus patrono patronae liberisve eorum sit, tantummodo castigari eum sub comminatione aliqua severitatis non defuturae, si rursum causam querellae praebuerit, et dimitti oportet. enimvero si contumeliam fecit aut convicium eis dixit, etiam in exilium temporale dari debebit: quod si manus intulit, in metallum dandus erit: idem et si calumniam aliquam eis instruxit vel delatorem subornavit vel quam causam adversus eos temptavit.).
[c] Ugualmente incerto è quale sanzione comminasse la lex Aelia Sentia a carico del liberto riconosciuto come ingratus. La varietà e la gradualità delle pene attestate nei passi del Digesto indicati alla lett. precedente (allo stesso modo della pretesa sententia Hadriani attestata da Ps.-Dosith., Sent. Hadr., 2Per libellum petente quodam, ut suum libertum perderet, quem ante tempus iussu praefecti aerari secundum legem Aeliam Sentiam in Iautumias miserat, et modo <cum> congiarium huius peteret, Adrianus dixit: “Quid quaeris perdere hominem et congiarium auferre, ex quo iam vindicatus es? Improbus es”.) si riferiscono a un sistema processuale senz’altro più recente e flessibile di quanto dovesse essere l’accusatio ex lege Aelia Sentia in senso proprio (cfr. M. Balzarini, De iniuria extra ordinem statui. Contributo allo studio del diritto penale romano dell’età classica, Padova, 1983, 222-223 e nt. 53). Dati cronologicamente più vicini alla legge si possono trarre solo da un ermetico passaggio di Tacito, che accenna, per il 56 d.C., a un relegare libertum ultra vicesimum lapidem in oram Campaniae (Tac., Ann., 13, 26, 2Quid enim aliud laeso patrono concessum quam ut vicensimun <centesimum?> ultra lapidem in oram Campaniae libertum releget?). L’affermazione tacitiana può certo interpretarsi come un riferimento letterale alla sanzione della relegatio oltre il ventesimo migliario (riferimento accompagnato da una nota ironica sull’esiguità di una pena da scontarsi anche in villeggiatura: così, a partire da Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, 18 nt. 2, vd. ex multis López Barja de Quiroga [2007] 78). Tuttavia, il fatto che la distanza tra Roma e la Campania fosse nell’ordine delle cento miglia, ha fatto supporre (vd. per es. Balzarini, op. cit. 221 nt. 50) che il testo originario recasse piuttosto ultra <cent> esimum lapidem e che Tacito non irridesse tanto una relegatio nel senso tecnico del termine, quanto il declassamento dei liberti ingrati allo stato di dediticii Aeliani, ai quali, come si è visto (§ 2.2.1 lett. [d]) era fatto divieto di avvicinarsi a meno di cento miglia dall’Urbe.
[d] Con una tale penuria di dati è ovviamente impossibile dire se l’accusatio ingrati si potesse intentare anche contro un liberto Latino. Va però rilevato che tanto sul piano delle pene astrattamente ascrivibili alla legge (relegatio / declassamento a dediticius Aelianus), quanto sul piano delle condotte che qualificavano un liberto come ingrato (con l’eccezione, forse solo parziale, del rifiuto di assumere la tutela: vd. notice n° 490, § 2.1.2 lett. [a]), non vi sono particolari difficoltà a immaginare che la legittimazione passiva all’accusatio potesse andare oltre la stretta cerchia dei liberti Romani.
4. - Modifiche, integrazioni, abrogazioni di parti della legge
4.1. - Premessa
«Ủπὸ γὰρ ἀκριβείας νόμων καὶ ἀκόντων τῶν κεκτημένων πολλῆς δυσχερείας οὔσης περὶ τὴν κτῆσιν τῆς ἀμείνονος ἐλευθερίας, ἣν πολιτείαν Ῥωμαίων καλοῦσι, τρεῖς ἔθετο νόμους ψηφισάμενος πάντας τοὺς ἐν ταῖς ἐκκλησίαις ἐλευθερουμένους ὑπὸ μάρτυσι τοῖς ἱερεῦσι πολιτείας Ῥωμαϊκῆς ἀξιοῦσθαι». Con le parole riportate, Sozomeno (Hist., 1, 9, 6) celebra le prime crepe aperte da Costantino nell’edificio della lex Aelia Sentia. Rimuovendo l’ostacolo rappresentato dalla ἀκριβεία νόμων, l’imperatore aveva infatti permesso che trovasse compimento il desiderio dei proprietari di accordare ai propri schiavi la ἀμείνων ἐλευθερία.
Dal momento che la disapplicazione della lex Aelia Sentia venne sancita da Costantino solo con riguardo ai manomessi in ecclesia (vd. meglio al § 4.2 lett. [b]), le parole di Sozomeno sono significative non solo di quanto profondamente, ma anche di quanto a lungo avessero inciso nel sistema delle relazioni sociali le norme della legge relative ai modus manumittendi. Proprio in regione della sua longevità, la scissione tra libertas e civitas, voluta dalla lex Aelia Sentia, insieme alle sue disposizioni sugli iura patronatus, necessitò peraltro di un aggiornamento costante, che tenesse il provvedimento al passo con le mutate realtà istituzionali.
Se è vero che la lex Iunia va datata al 19 d.C., la necessità di un aggiornamento della legge dovette porsi pressoché da subito, in relazione al problema di estendere le sue disposizioni alla nuova classe di liberti (per la relativa discussione, quasi sempre congetturale, vd. ai §§ 2.2.3 lett. [c], 2.3.3 lett. [b], 2.4.1 lett. [c], 3.3 lett. [e], 3.4 lett. [e], 3.5 lett. [d]). Nonostante le pochissime informazioni offerte dalle fonti, va poi da sé che una seconda serie di adattamenti deve necessariamente postularsi anche per altre disposizioni della legge, legate a filo doppio alla realtà istituzionale di un dato periodo storico. E’ il caso delle norme di tipo procedurale della lex Aelia Sentia (per es. quelle legate all’accusatio ingrati liberti: vd. § 3.5 lett. [b]) e delle norme che prevedevano altre forme di coinvolgimento dell’autorità pubblica (come quelle collegate alle professiones liberorum [vd. § 2.5.3] o alla manumissio apud consilium [vd. § 2.5.1]).
Al netto di tutte queste incertezze, la “fortuna” della lex Aelia Sentia si può tuttavia misurare grazie alle informazioni disponibili intorno a una serie di provvedimenti autoritativi intervenuti nel corso del principato e poi della Tarda Antichità, volti a integrare e in molti casi, infine, a cancellare singole parti del complesso regime legato ai modus manumittendi e alle procedure complementari ad essi connesse. Per la rassegna che segue, si prenderanno come termini ultimi di riferimento la compilazione giustinianea, per l’Oriente e quella alariciana, per l’Occidente.
4.2. - Modus manumittendi : integrazioni ed esiti
[a] Fino al 530 rimasero formalmente in vigore le norme sulla dediticia condicio (secondo la denominazione attribuitale da Giustiniano nella costituzione con cui ne dispose l’abrogazione: C., 7, 5, 1Iust. A. Iuliano pp. : Dediticia condicio nullo modo in posterum nostram rem publicam molestare concedatur, sed sit penitus delata, quia nec in usu esse reperimus, sed vanum nomen huiusmodi libertatis circumducitur. nos enim, qui veritatem colimus, ea tantummodo volumus in nostris esse legibus, quae re ipsa obtinent (a. 530).). Stando al resoconto che le Istituzioni offrono dell’intervento imperiale, la pessima condicio dei liberti dediticii era peraltro caduta in desuetudine iam ex multis temporibus, unitamente allo scarso ricorso che ormai si faceva al nomen Latinum (Inst., 1, 5, 3Libertinorum autem status tripertitus antea fuerat: nam qui manumittebantur, modo maiorem et iustam libertatem consequebantur et fiebant cives Romani, modo minorem et Latini ex lege Iunia Norbana fiebant, modo inferiorem et fiebant ex lege Aelia Sentia dediticiorum numero. sed dediticiorum quidem pessima condicio iam ex multis temporibus in desuetudinem abiit, Latinorum vero nomen non frequentabatur: ideoque nostra pietas omnia augere et in meliorem statum reducere desiderans in duabus constitutionibus hoc emendavit et in pristinum statum reduxit, quia et a primis urbis Romae cunabulis una atque simplex libertas competebat, id est eadem, quam habebat manumissor, nisi quod scilicet libertinus fit qui manumittitur, licet manumissor ingenuus sit. et dediticios quidem per constitutionem expulimus, quam promulgavimus inter nostras decisiones, per quas suggerente nobis Triboniano viro excelso quaestore antiqui iuris altercationes placavimus: Latinos autem Iunianos et omnem quae circa eos fuerit observantiam alia constitutione per eiusdem quaestoris suggestionem correximus, quae inter imperiales radiat sanctiones, et omnes libertos nullo nec aetatis manumissi nec dominii manumissoris nec in manumissionis modo discrimine habito, sicuti antea observabatur, civitate Romana donavimus: multis additis modis, per quos possit libertas servis cum civitate Romana, quae sola in praesenti est, praestari.). E’ lecito tuttavia dubitare del valore assoluto dell’affermazione, almeno in rapporto a quanto emerge per l’Occidente. Quando Valentiniano III, nel 447, limitò le prerogative degli eredi del patrono sui bona del liberto defunto, lo fece infatti regolando la successione dei soli liberti Romani (Nouell. Valent., 25, 2De successionibus etiam, quas latius et obscurius veteres protulerunt, compendium lucidae definitionis adhibemus. Itaque libertus, qui civis Romani privilegium fuerit consecutus, sive unicum pignus seu plures cuiuslibet sexus habeat filios, cum mori coeperit, suboli suae omnes proprias si maluerit facultates supremo securus dimittat arbitrio.), e dunque sul presupposto che la libertas Aeliana e/o Latina mantenessero inalterato il loro regime e il loro valore. Ancora nella compilazione alariciana sono attestate entrambe le classi libertine deteriori, sia al livello del liber Gai (Epit. Gai, 1, 1, 1-4Cives Romani sint, qui his tribus modis, id est testamento aut in ecclesia aut ante consulem fuerint manumissi. [2] Latini sunt, qui aut per epistulam aut inter amicos aut convivii adhibitione manumittuntur. [3] Dediticii vero sunt, qui post admissa crimina suppliciis subditi et publice pro criminibus caesi sunt, aut in quorum facie vel corpore quaecumque indicia aut igne ferro impressa sunt, et ita impressa sunt, ut deleri non possint. Hi si manumissi fuerint, dediticii appellantur. [4] Sed inter haec tria genera libertatum ideo cives Romani meliorem statum habent, quia et testamenta facere et ex testamento quibuscumque personis succedere possunt: nam Latini et dediticii nec testamenta condere, nec sibi ex testamento aliorum aliquid dimissum possunt ullatenus vindicare. Tamen Latini certis rebus privilegium civium Romanorum libertatem consequi possunt. Dediticii vero nulla ratione possunt ad civium Romanorum libertatem ordinis beneficio pervenire. Nam Latini patronorum beneficio, id est, si iterum ab ipsis aut testamento aut in ecclesia aut ante consulem manumittantur, civium Romanorum privilegium consequuntur.) sia al livello delle Pauli Sententiae (tit. 4.11, dell’ediz. Haenel).
[b] Sempre nel 530, Giustiniano cancellò anche il modus relativo all’età minima del manomesso. Il provvedimento abrogativo - C., 7, 15, 2Iust. A. Iuliano pp. : Si quis servo suo libertatem imponat sive in ecclesia sive ad qualecumque tribunal vel apud eum, qui libertatem imponere legibus habet licentiam, sive in testamento vel alio ultimo elogio directam vel fideicommissariam, nullo coartetur modo eorum qui ad libertatem veniunt aetatem requirere. neque enim eum tantummodo civitatem Romanam adipisci volumus, qui maior triginta annis extitit, sed quemadmodum in ecclesiasticis libertatibus non est huiusmodi aetatis differentia, ita in omnibus libertatibus, quae a dominis imponuntur sive in extremis dispositionibus sive per iudices vel alio legitimo modo, hoc observari sancimus, ut sint omnes cives Romani constituti: ampliandam enim magis civitatem nostram quam minuendam esse censemus (a. 530). - lascia tuttavia intendere che il limite dei trent’anni era già venuto meno per la manumissio in ecclesia (quemadmodum in ecclesiasticis libertatibus non est huiusmodi aetatis differentia, ita in omnibus libertatibus […] hoc observari sancimus). E’ possibile che la deroga rimontasse al riconoscimento stesso di questa nuova forma di affrancamento. Dei tre provvedimenti che Sozomeno attribuisce a Costantino (vd. § 4.1), quello del 321, tramandato dal Codice Teodosiano, sembra infatti già presupporre che le affrancazioni effettuate in ecclesiae gremio attribuissero in ogni caso la civitas Romana (CTh., 4, 7, 1, pr.Qui religiosa mente in ecclesiae gremio servulis suis meritam concesserint libertatem, eandem eodem iure donasse videantur, quo civitas Romana solennibus decursis dari consuevit. Sed hoc dumtaxat iis, qui sub adspectu antistitum dederint, placuit relaxari.: eandem [scil. libertatem] eodem iure donasse videantur, quo civitas Romana solennibus decursis dari consuevit). E’ forse per l’analogia suggerita proprio dal regime della -manumissio in ecclesia che l’antica norma della lex Aelia Sentia risulta di fatto superata anche nella lex Romana Visigothorum (cfr. D. Mantovani, «Sul liber Gai: trasmissione, forma, contenuti e storia degli studi», in U. Babusiaux – D. Mantovani, Le Istituzioni di Gaio: avventure di un bestseller. Trasmissione, uso e trasformazione del testo, Pavia, 2020, 603), oltre che nella lex Romana Burgundiorum (cfr. § 44, 5: Latini aliter intellegi non possunt […] quam si inter amicos pronunciante domino ad convivium evocantur).
[b1] Per l’età del principato si ha notizia di un senatoconsulto supplementare che incideva sulle iustae causae manumissionis (e dunque anche sul modus relativo all’età minima del manomissore): il provvedimento stabiliva che se l’intenzione del padrone era di liberare una schiava per poterla sposare, la dichiarazione doveva essere accompagnata dal giuramento di sposarsi intra sex mensens (D., 40, 2, 13Ulp. [6] de off. procons. : si collactaneus, si educator, si paedagogus ipsius, si nutrix, vel filius filiave cuius eorum, vel alumnus, vel capsarius (id est qui portat libros), vel si in hoc manumittatur, ut procurator sit, dummodo non minor annis decem et octo sit, praeterea et illud exigitur, ut non utique unum servum habeat, qui manumittit. item si matrimonii causa virgo vel mulier manumittatur, exacto prius iureiurando, ut intra sex menses uxorem eam duci oporteat: ita enim senatus censuit. i.f.); nel frattempo la libertà dell’affrancata, come della prole da lei generata dopo l’affrancazione, restava in sospeso (cfr. D., 40, 2, 19Cels. 29 dig. : Si minor annis apud consilium matrimonii causa praegnatem manumiserit eaque interim pepererit, in pendenti erit, servus an liber sit, quem ea peperit.; sul tema vd. A. Wacke, «Manumissio matrimonii causa : le mariage d’affranchies d’après les lois d’Auguste», in RHDFE 67, 1989, 420-422, nonché ora K.-P. Huemoeller, «Freedom in Marriage? Manumission for Marriage in the Roman World», in JRS., 110, 2020, 129-134).
[b2] Sempre per l’età del principato si ha notizia di un altro senatoconsulto – senz’altro precedente al regno di Traiano (arg. dalla posizione attribuita al giurista Aristone in D., 40, 4, 46Pomp. 7 ex var. lectionib. : Aristo Neratio Appiano rescripsit, testamento liber esse iussus, cum annorum triginta esset, antequam ad eam aetatem perveniret si in metallum damnatus sit ac postea revocetur, sine dubitatione cum libertate legatum ad eum pertinere neque metallorum poena ius eius mutari: nec aliud, si heres esset sub condicione institutus: futurum enim eum etiam necessarium.) – che avrebbe ribadito l’impossibilità di manomettere per testamento schiavi minori di trent’anni, anche se contestualmente li si istituiva come eredi (cum senatus consulto prohibitum sit proprium servum minorem annis triginta liberum et heredem instituere: Gaius, Inst., 2, 276Item cum senatus consulto prohibitum sit proprium servum minorem annis XXX liberum et heredem instituere, plerisque placet posse nos iubere liberum esse, cum annorum XXX erit, et rogare, ut tunc illi restituatur hereditas.). Il senso e la portata di questo intervento restano tuttavia incerti (al punto che vi è stato anche chi ha proposto di emendare il testo tràdito: cfr. David – Nelson, Gai Institutionum Commentarii IV cit., ad loc.). Una prima possibilità è che il senato fosse intervenuto a fugare il dubbio se il divieto introdotto dalla lex Aelia Sentia valesse anche quando la manomissione fosse stata appunto integrata dalla heredis institutio dello schiavo liberato (cfr. anche Rainer [2021] 81: «der Senatsbeschluss selbst mag als ratio legis durchaus die Klärung insolventer Erbschaften gehabt haben»). D’altro canto, si è visto come la stessa lex Aelia Sentia permettesse a un debitore insolvente d’evitare l’infamia, manomettendo per testamento un unico schiavo al fine di nominarlo erede (vd. § 2.6.1 lett. [c]): una seconda possibilità è perciò che il senatoconsulto intervenisse a modificare quest’altro caput legis, precisando che la deroga non consentiva comunque di liberare schiavi che avessero meno di trent’anni.
[c] Di più lunga durata, rispetto al modus relativo all’età del manomesso, fu invece quello relativo all’età minima del manomissore. Giustiniano, pur abassando la soglia a 17 anni (Inst., 1, 6, 7Cum ergo certus modus manumittendi minoribus viginti annis dominis per legem Aeliam Sentiam constitutus sit, eveniebat, ut, qui quattuordecim annos aetatis expleverit, licet testamentum facere possit et in eo heredem sibi instituere legataque relinquere possit, tamen, si adhuc minor sit annis viginti, libertatem servo dare non poterat. quod non erat ferendum, si is, cui totorum bonorum in testamento dispositio data erat, uni servo libertatem dare non permittebatur. quare nos similiter ei quemadmodum alias res ita et servos suos in ultima voluntate disponere quemadmodum voluerit permittimus, ut et libertatem eis possit praestare. sed cum libertas inaestimabilis est et propter hoc ante vicesimum aetatis annum antiquitas libertatem servo dari prohibebat: ideo nos mediam quodammodo viam eligentes non aliter minori viginti annis libertatem in testamento dare servo suo concedimus, nisi septimum et decimum annum impleverit et octavum decimum tetigerit. cum enim antiquitas huiusmodi aetati et pro aliis postulare concessit, cur non etiam sui iudicii stabilitas ita eos adiuvare credatur, ut et ad libertates dandas servis suis possint pervenire.), mantenne la regola che il proprietario minorenne potesse manomettere soltanto previa approvazione della iusta causa manumissionis; il che spiega per quale ragione i commenti bizantini ai testi della compilazione ancora ricordino il relativo caput della lex Aelia Sentia (cfr. Theoph., 1, 6, 4-5Ἔγνωμεν ἐκ τῶν προλαβόντων ὅτι ὁ AELIOS SENTIOS ἀκυροῖ τὰς ἐλευθερίας τὰς IN FRAUDEM CREDITORUM διδομένας μισῶν τὴν τοῦ ἐλευθεροῦντος διάνοιαν ὡς ἐπ’ ἀδικίᾳ γινομένην ἑτέρων. ὁ αὐτὸς νόμος ἐπέχει τὰς ἐλευθερίας τὰς παρεχομένας ὑπὸ τῶν ἐλαττόνων τῶν εἴκοσι ἐνιαυτῶν, οὐ διὰ μῖσος, ἀλλὰ δι’ εὔνοιαν τῶν ἐλευθερούντων. ἠπίστατο γὰρ ὡς οἱ τοιαύτην ἄγοντες ἡλικίαν εὐχερῶς ἀπατῶνται καὶ ταῖς τῶν οἰκετῶν εἴκουσι κολακείαις καὶ τούτῳ τῷ τρόπῳ τὴν ἑαυτῶν ἐλαττοῦσιν ὑπόστασιν. τοῦτο οὖν εἰδὼς ταῖς ἐκεῖθεν ἐπιβουλαῖς τὴν ἑαυτοῦ νομοθεσίαν ἀντέστησεν. κωλύσας δὲ τούτους τὸν ἴδιον οἰκέτην ἐλευθεροῦν, ἐπέτρεψεν ἐλευθερίαν διδόναι ἐπὶ εὐλόγου αἰτίας ἐπὶ ἄρχοντος ἐν CONSILIO δοκιμαζομένης. εἴπωμεν δὲ πρότερον τί ἐστι CONSILION καὶ οὕτως ἐροῦμεν τὰς εὐλόγους εἴπωμεν δὲ πρότερον τί ἐστι CONSILION καὶ οὕτως ἐροῦμεν τὰς εὐλόγους αἰτίας. [5] Εἰπόντες τὸ CONSILION εἴπωμεν καὶ τὰς εὐλόγους αἰτίας. εὔλογός ἐστιν αἰτία, ἡνίκα ὁ ἐλάττων τῶν εἴκοσι ἐτῶν βουληθῇ τὸν πατέρα ἢ τὴν μητέρα ἐλευθερῶσαι, οὓς πεποίηκε μὲν ἡ φύσις τῷ παιδὶ γονεῖς, ἡ δὲ γνώμη τοῦ δεσπότου δούλους ἀπετέλεσεν. καὶ πῶς προβαίνει τοῦτον μὲν ἐκ δουλείας τεχθέντα ἐλεύθερον εἶναι καὶ Ῥωμαῖον, τοὺς δὲ γονεῖς ὑπὸ τὴν τοῦ παιδὸς τελεῖν δεσποτείαν; ὑπόθου τοὺς τρεῖς ὑπὸ μίαν καὶ τὴν αὐτὴν εἶναι δεσποτείαν, τελευτῶντα δὲ τὸν δεσπότην ἐνστήσασθαι κληρονόμον τὸν παῖδα, ἐλάττονα ὄντα τῶν εἴκοσι ἐτῶν, καὶ τούτῳ τῷ τρόπῳ συμβῆναι τῶν οἰκείων γονέων μετὰ τῶν ἄλλων πραγμάτων δεσπότην αὐτὸν γενέσθαι. εἶτα μὴ βουλόμενος ὁ παῖς ἐν δουλείᾳ τοὺς φύσαντας αὐτὸν ὁρᾶν ὑβριζομένους ἠλευθέρωσε τούτους ἐν CONSILIO. εὔλογός ἐστιν αἰτία καὶ τὸ εἰπεῖν «υἱός ἠλευθέρωσε τούτους ἐν CONSILIO. εὔλογός ἐστιν αἰτία καὶ τὸ εἰπεῖν «υἱός μού ἐστι φυσικός», «θυγάτηρ μού ἐστι φυσική». θεμάτισον γὰρ ὅτι ἐρασθείς τις τῆς οἰκείας θεραπαίνης ἔσχεν ἐξ αὐτῆς υἱὸν ἢ θυγατέρα· καὶ δοῦλον ἦν τὸ τεχθὲν ὡς ἐκ δούλης γαστρὸς προελθόν. καὶ πάλιν τὸ εἰπεῖν «ἀδελφός μού ἐστι φυσικός», «ἀδελφή μού ἐστι φυσική». ἐπειδὴ γὰρ ὁ ἐμὸς πατὴρ ἰδίᾳ δούλῃ μιγεὶς ἔσχε παῖδας, οὓς οὐκ ἠλευθέρωσεν, ἐκείνου δὲ τελευτήσαντος ἐμὲ τούτων ὁ νόμος ἐποίησε δεσπότην, ἐγὼ τούτους διὰ τὴν φυσικὴν ἠλευθέρωσα συγγένειαν. εὔλογος αἰτία ἐστὶ καὶ τὸ εἰπεῖν ὅτι «παιδαγωγός μού ἐστιν», ἢ «τροφός», ἢ «τροφεύς», ἢ «ALUMNOS», ἢ «ALUMNA», τὸ ἐν τῇ συνηθείᾳ λεγόμενον COLLACTANEOS, τουτέστιν ὁμογάλακτος, ἢ «οἰκέτην ἐλευθερῶσαι βούλομαι PROCURATORIS HABENDI GRATIA», ἐπὶ τῷ ὡς ἐλεύθερον αὐτὸν ὄντα ἀκωλύτως πάντα μου διοικεῖν τὰ πράγματα. ἢ καὶ θεράπαιναν ἠλευθέρωσα MATRIMONII CAUSA, τουτέστιν ἐπὶ τῷ λαβεῖν αὐτὴν γαμετήν· ἐπειδὴ γὰρ μεταξὺ ἐλευθέρου καὶ δούλης οὐ συνίσταται γάμος, ἠλευθέρωσα αὐτὴν διὰ τοῦτο. τὸν δὲ ἐλευθεροῦντα MATRIMONII CAUSA εἴσω ἓξ μηνῶν δεῖ ταύτην ἄγεσθαι γυναῖκα, εἰ μὴ εὔλογος αἰτία κωλύσει, οἷον ἐπειδὴ συγκλητικὸς γέγονεν ὁ ἐλευθερώσας· ὁ γὰρ συγκλητικὸς ἀπελευθέραν γαμεῖν οὐ δύναται. καὶ ὁ ἐλευθερούμενος δὲ PROCURATORIS HABENDI GRATIA ὀφείλει μείζων εἶναι τῶν δέκα καὶ ἑπτὰ ἐνιαυτῶν., Schol. Basil., 48, 2, 16, n. 1Χρὴ τὸν ἐξετάζοντα τὴν εὔλογον τῆς ἐλευθερίας αἰτίαν μὴ <τὰς> ἀπὸ ἀσωτίας ἢ αἰσχρότητος τυχόν, ἀλλὰ τὰς ἀπὸ καθαρᾶς διαθέσεως εὐλόγους αἰτίας ἠρτημένας προσδέχεσθαι. Οὐδὲ γὰρ τὰς πρὸς τέρψιν καὶ κολακείαν ἐλευθερίας συνεχώρησεν ὁ ʼAelios Sentios, ἀλλὰ τὰς ἐκ δικαίας διαθέσεως.). Soltanto con la legislazione novellare il modus verrà fatto cadere del tutto in Oriente, ripristinando per le manomissioni la regola generale della pubertà (Nouell. Iust., 119, 2Et hoc quoque praesenti sancimus constitutione, ut licentia sit minoribus in ipso tempore, in quo licet eis testari de alia substantia, etiam suos servos in ultimis voluntatibus manumittere, nullo eis impedimento aetatis faciendo, sed vacante lege quae hoc primitus prohibebat (a. 544)., dell’a. 544). In Occidente, stando almeno a quanto attesta la lex Romana Visigothorum, il limite rimase invece invariato (cfr. Epit. Gai, 1, 1, 7Praeterea minor quicumque viginti annorum dominus libertatem servo dare non potest; nisi forte tantum minor manumissor, cui pater suus et mater a patrono donati sunt, eosdem manumittat, aut certe paedagogum aut collactaneum manumittat. Nam quamlibet dominus, id est quatuordecim annos egressus, testamentum facere possit et heredem instituere et legata relinquere, libertatem tamen servis non potest in hac aetate conferre.).
Per l’età del principato si ha notizia di un senatoconsulto, volto a prevenire tentativi di elusione del divieto, perpetrati attraverso negozi fiduciari. Il provvedimento colpì infatti con la nullità anche l’affrancazione disposta da chi avesse ricevuto lo schiavo da un proprietario minorenne con la clausola ‘ut manumitteretur’ (C., 7, 11, 4Alex. A. Felicissimo : Si minor annis viginti ad libertatem praestandam homines tradidisti, senatus consulto quod gestum est irritum constituitur (a. 224).).
[d] Nella lex Romana Visigothorum continua ad essere attestato anche il divieto di manomettere in frode alle ragioni di creditori e patroni (cfr. Epit. Gai, 1, 1, 5-6Non tamen omnes domini servos suos manumittere possunt. Nam si aliquis multa debita habeat, cuius substantia creditoribus teneatur obnoxia, si in fraudem creditoris sui servos suos manumittere voluerit, collata manumissio non valet. [6] Aut si libertus civis Romanus liberos non habuerit et in fraudem patroni sui servos suos manumittat, similiter data manumissio non valebit.). Nella compilazione giustinianea – e di riflesso nella letteratura bizantina di commento (cfr. Theoph., 1, 6, pr.Ἐδίδαξεν ἡμᾶς τὰ προλαβόντα κατὰ πόσους τρόπους γίνεται ἡ ἐλευθερία. νῦν ἀναγκαῖόν ἐστι μαθεῖν ὅτι οὐ παντὶ δεσπότῃ παρέχειν ἔξεστιν ἐλευθερίαν. ὁ γὰρ IN FRAUDEM CREDITORUM, τουτέστι πρὸς βλάβην καὶ ἀπάτην τῶν δανειστῶν, ἐλευθερῶν οὐδὲν πράττει. ὁ γὰρ AELIOS SENTIOS ἐμποδίζει τῇ ἐλευθερίᾳ· μισεῖ γὰρ τοὺς ἐπὶ βλάβῃ τὴν οἰκείαν μειοῦντας περιουσίαν ἐκείνων οἳ ἐν καιρῷ ἀναγκαίῳ αὐτοῖς δεηθεῖσιν ἐχορήγησαν χρήματα. αὐτὸς δὲ ὁ ταῦτα κελεύσας δέδωκέ τισιν ἄδειαν τοῦ ἐλευθεροῦν, εἰ καὶ ἐλαττοῦται ἐντεῦθεν αὐτῶν ἡ περιουσία, τουτέστι τοῖς ἀπόροις. ἄπορος δέ ἐστιν ᾧ μηδὲν ὑπολιμπάνεται μετὰ τὴν τῶν χρεῶν ἐξαίρεσιν. ἢ οὕτως· ἄπορός ἐστιν ὁ πλείονα ἐποφείλων ὧν κέκτηται. ὁ τοίνυν ἄπορος ἐν πολλῇ καθεστήκει ἀθυμίᾳ, λογιζόμενος οὐχ οὕτως τὰ ἐν ζωῇ ἐπαχθῆ, ἅπερ ἐσθ’ ὅτε κει ἀθυμίᾳ, λογιζόμενος οὐχ οὕτως τὰ ἐν ζωῇ ἐπαχθῆ, ἅπερ ἐσθ’ ὅτε ἠδύνατο τρόποις τισὶ διαφυγεῖν, ἀλλὰ τὰ μετὰ τελευτὴν ἐνθυμούμενος καὶ τὴν προσγενησομένην αὐτῷ ὕβριν. οὐδεὶς γὰρ ἀνέξεται τῶν εὖ φρονούντων προσελθεῖν κληρονομίᾳ ἐξ ἧς κέρδος μὲν οὐδὲν τῷ ADITEUONTI, ὕβρεις δὲ μυρίαι καὶ ζημίαι καὶ οἱ ἐπὶ δικαστήριον ἑλκυσμοί. μηδενὸς οὖν ὑπεισιόντος τῇ τούτου κληρονομίᾳ ἀνάγκη διαπιπράσκεσθαι ὑπὸ τῶν δανειστῶν τὴν αὐτοῦ περιουσίαν, καὶ ἐντεῦθεν τὴν αὐτοῦ μνήμην εὐτελίζεσθαι. οἱ γὰρ CREDITORES οὐκέτι λέγουσιν ὅτι «τὰ τοῦδε διαπιπράσκεται πράγματα τοῦ κληρονόμου», ἀλλὰ «τοῦδε τοῦ τελευτήσαντος»., Schol. Basil., 48, 5, 2, n. 1Στατουλίβερ ἐστὶν ὁ τὴν ἐλευθερίαν ἔχων ὡρισμένην εἰς χρόνον ῥητὸν ἢ εἰς αἵρεσιν. Γίνεται δὲ στατουλίβερ ἢ ἐκφωνουμένης τῆς αἱρέσεως ἢ αὐτῇ τῇ δυνάμει νοουμένης, κἂν μὴ ἐκπεφώνηται. Καὶ τὸ μὲν ἐκπεφωνῆσθαι τὴν αἵρεσιν πρόδηλόν ἐστιν· αὐτῇ δὲ τῇ δυνάμει περιέχεται ἡ αἵρεσις, ὅτε πρὸς περιγραφὴν τῶν δανειστῶν καταλιμπάνεται ἡ ἐλευθερία. Ἕως γὰρ ὅτε ἀμφιβάλλομεν, εἰ μέλλουσι κεχρῆσθαι οἱ δανεισταὶ τοῖς ἰδίοις δικαίοις καὶ ἐμποδίζειν τῇ ἐλευθερίᾳ, στατουλίβερες ἐν τῷ μεταξύ εἰσιν οἱ οἰκέται· ἐν γὰρ τῷ Ἀελίῳ Σεντίῳ τὴν περιγραφὴν ἐνδυνάμως νοοῦμεν, καὶ ἐὰν μὴ ἀποτελεσθῇ εἰς βλάβην τῶν δανειστῶν ἡ ἐλευθερία (πολλάκις γὰρ ἐπεκτήσατο οὐσίαν ὁ καταλιπὼν τὴν ἐλευθερίαν), οὐκέτι ἐμποδίζει ὁ Ἀέλιος Σέντιος τῇ τῶν οἰκετῶν καταλιπὼν τὴν ἐλευθερίαν), οὐκέτι ἐμποδίζει ὁ Ἀέλιος Σέντιος τῇ τῶν οἰκετῶν ἐλευθερίᾳ., Schol. Basil., 48, 7, 16, n. 3Ὁ Ἀέλιος Σέντιος νόμος κωλύει <ἐπὶ> περιγραφῇ δανειστῶν οἰκέτην ἐλευθεροῦσθαι· δανειστὴς δὲ νοεῖται πᾶς ἄνθρωπος ἐξ οἱασδήποτε αἰτίας ἔχων ἀγωγὴν κατὰ τοῦ ἀπόρου δεσπότου., Schol. Basil., 48, 7, 27, n. 1Οὐ μόνον ὁ πούρως χρεωστῶν πιστεύεται ἰνφραούδεμ κρεδιτόρουμ ἐλευθεροῦν καὶ ἐμποδίζεται τῶν οἰκετῶν ἡ ἐλευθερία, ἀλλ’ εἰ καὶ ὑπὸ προθεσμίαν ἐχρεώστει τις καὶ ἐπέφθασε μετὰ ταῦτα ἡ προθεσμία, ἢ ὑπὸ αἵρεσιν ἢ ὑπὸ ἡμέραν ἐχρεώστει καὶ ἤρτηται ἔτι ἡ αἵρεσις καὶ ἡ ἡμέρα, ἐμποδίζεται ἡ ἐλευθερία· δανειστὴς γάρ ἐστι καὶ ὁ ὑπὸ αἵρεσιν χρεωστούμενος. Τὸ ἐναντίον δὲ λέγομεν περὶ τοῦ αἱρετικοῦ ληγαταρίου· πρὶν γὰρ ἐκβῆναι τὴν αἵρεσιν τοῦ ληγάτου οὐκ ἀριθμεῖται μετὰ τῶν δανειστῶν ὁ ληγατάριος. Τοῖς δὲ ἀπὸ πάσης αἰτίας δανεισταῖς ἐν τούτῳ τῷ μέρει βοηθεῖ ὁ Ἀέλιος Σέντιος νοῶν δανειστὴν εἶναι καὶ τὸν φιδεϊκομμισσάριον., Schol. Basil., 48, 7, 29, n. 1Ὁ μὴ ἰδικῶς ἐνεχυριασθεὶς οἰκέτης, ἀλλὰ τῇ γενικῇ κρατούμενος ὑποθήκῃ, τελειοτάτῳ δικαίῳ ὑπὸ τοῦ χρεώστου δεσπόζεται καὶ καλῶς ἐλευθεροῦται παρ’ αὐτοῦ, εἰ μὴ ἄρα ὁ Ἀέλιος Σέντιος ἐμποδίζει τῇ ἐλευθερίᾳ διὰ τὴν ἀπορίαν τοῦ δεσπότου. Ὁ δὲ ὑπὸ αἵρεσιν ληγατευθεὶς οἰκέτης, εἰ καὶ ἠρτημένης τῆς αἱρέσεως πληρεστάτῳ δικαίῳ διαφέρει τῷ κληρονόμῳ, ὅμως ἐλευθεροῦσθαι παρ’ αὐτοῦ οὐ δύναται, ἵνα μὴ βλάπτηται ὁ ληγατάριος.) - si direbbe invece che la scelta sia stata quella di stralciare la parte relativa ai patroni (cfr. in part. Inst., 1, 6, pr.Non tamen cuicumque volenti manumittere licet. nam is qui in fraudem creditorum manumittit nihil agit, quia lex Aelia Sentia impedit libertatem., dove viene eliminato il riferimento alla fraus patroni, presente nel modello di Gaius, Inst., 1, 37Nam is, qui in fraudem creditorum vel in fraudem patroni manumittit, nihil agit, quia lex Aelia Sentia inpedit libertatem.: vd. § 2.6.1 lett. [b2]). Le ragioni di questo presunto stralcio non sono però chiare. Secondo M.-G. Zoz, I rimedi contro gli atti in frode ai legittimari in diritto romano, Milano, 1978, 63-64, Giustiniano avrebbe implicitamente abrogato questa parte della lex Aelia Sentia, per semplificare il sistema generale; sicché i pochi testi pertinenti inseriti comunque nella compilazione (D., 38, 5, 11Paul. 3 ad l. Aeliam Sentiam: Non videtur patronus fraudari eo quod consentit: sic et quod volente patrono libertus donaverit, non poterit Fabiana revocari. e D., 40, 12, 9, 2Gai. ad ed. pu. de liberali causa. : Unde in utroque casu dispiciamus, an, si is qui prior egerit victus sit, prosit ei, quod posterior vicerit, vel contra, id est ut, cum omnino alteruter vicerit, prosit etiam alteri, sicut prodest heredi liberti, quod in fraudem patroni servi manumissi sint. si cui placeat prodesse, consequens est, ut, cum idem petat [in quo victum est ins. Momms.], exceptioni rei iudicatae obiciatur replicatio: si cui vero placeat non prodesse, is habebit sequentem dubitationem, utrum id, in quo quis victus est, nullius erit an eius esse debeat, cum quo actum sit, an potius eius qui vicerit? scilicet ut utilis actio detur ei qui vicerit, minime autem praetor pati debeat, ut pro parte quis servus sit.) dovrebbero valere «come esempio teorico e storico» (p. 64). Una alternativa è che la definizione ampia di creditor – quale è quella che i compilatori del Digesto presentano nel titolo generale D., 50, 16, decontestualizzandola dagli originali classici (fr. 10: ‘Creditores’ accipiendos esse constat eos, quibus debetur ex quacumque actione vel persecutione) - fosse ritenuta sufficiente a ricomprendervi anche i patroni, in quanto titolari di quella che gli stessi giuristi classici erano arrivati a qualificare come portio debita.
[e] Sempre con riferimento al divieto di manomettere in frode ai creditori, si ha inoltre notizia di misure che inclusero nel novero dei creditori garantiti dal divieto fisco e civitates (cfr. D., 40, 9, 11Marcian. 13 inst. : In fraudem civitatium manumissi ad libertatem non veniunt, ut senatus censuit. [1] Sed nec in fraudem fisci datas libertates procedere principalibus constitutionibus cavetur. Sed [ut ins. Momms.] divi fratres rescripserunt, non utique, si debitor fisci manumiserit, libertates impediuntur, sed ita, si, cum non erat solvendo, in fraudem manumisit., su cui vd. F. Arcaria, Senatus censuit. Attività giudiziaria ed attività normativa del senato in età imperiale, Milano, 1992, 202-203). Un senatoconsulto estensivo di età adrianea incise inoltre sul caput derogatorio che consentiva al debitore insolvente di liberare uno schiavo sul quale fare ricadere l’infamia della procedura esecutiva. Il provvedimento – ricordato in D., 28, 5, 84, 1D. 28, 5, 84, 1 Scaev. 18 quaest. : Temporibus divi Hadriani senatus censuit, si testator, qui cum moritur solvendo non fuit, duobus pluribusve libertatem dederit eisque hereditatem restitui iusserit et institutus heres suspectam sibi hereditatem dixerit, ut adire eam cogatur et ad libertatem perveniat qui priore loco scriptus fuerit, eique hereditas restituatur. idem servandum in his, quibus per fideicommissum libertas data fuerit. igitur si primo loco scriptus desideraret adir[i corr. Momms.] hereditatem, nulla difficultas erit. nam si posteriores quoque liberos se esse dicent et restitui hereditatem desiderent, an solvendo sit hereditas et omnibus liberis factis restitui deberet, apud praetorem quaereretur. absente autem primo sequens desiderans adiri hereditatem non est audiendus, quia, si primus velit sibi restitui hereditatem, praeferendus est et hic servus futurus est. – riconosceva come libero non solo lo schiavo il cui nome fosse stato primo loco scriptus secondo il dettato della lex Aelia Sentia, vale a dire quando nel testamento la sua manomissione fosse stata accompagnata dalla istituzione d’erede (§ 2.6.1. lett. [c1]), bensì anche lo schiavo affrancato che il debitore insolvente avesse indicato nel proprio testamento come fedecommissario universale.
4.3. - Misure addizionali
[a] La procedura dell’anniculi causae probatio – che la lex Aelia Sentia aveva introdotto in favore degli schiavi minori di trent’anni manomessi sine consilio, e che la lex Iunia aveva esteso agli schiavi minorenni manomessi inter amicos (vd. § 2.5.2 lett. [c]) – venne ulteriormente generalizzata in favore di tutti i manomessi inter amicos, quale che ne fosse l’età. La misura fu adottata sotto il principato di Vespasiano, per senatoconsulto (Gaius, Inst., 1, 31Hoc tamen ius adipiscendae civitatis Romanae etiamsi soli minores triginta annorum manumissi et Latini facti ex lege Aelia Sentia habuerunt, tamen postea senatus consulto, quod Pegaso et pusione consulibus factum est, etiam maioribus triginta annorum manumissis Latinis factis concessum est., Tit. Vlp., 3, 4Iteratione fit civis Romanus, qui post Latinitatem, quam acceperat, maior triginta annorum iterum iuste manumissus est ab eo, cuius ex iure Quiritium servus fuit. Sed huic concessum est ex senatus consulto, etiam liberis ius Quiritium consequi.).
[b] Un senatoconsulto successivo, di età adrianea, intervenne ulteriormente su un aspetto laterale della materia. Come si è visto (al § 2.5.2 lett. [c2]), l’approdo del liberto Latino alla iusta libertas aveva l’effetto complementare di vedere drasticamente ridotte, se non in qualche caso addirittura annullate, le aspettative ereditarie dei manomissori. Tuttavia, la cosa valeva solo se alla civitas Romana il liberto fosse arrivato in forza di una qualche norma generale (quale appunto poteva essere quella relativa all’anniculi causae probatio: sulle altre fattispecie di questo tipo, vd. notice n° 490, § 4.1). Nel caso di concessioni imperiali ad personam la regola – canonizzata da una costituzione di Traiano – era invece che il ius Quiritium fosse attribuito salvo iure patroni, nel caso in cui quest’ultimo non avesse acconsentito alla promozione del liberto (cfr. Gaius, Inst., 3, 72Aliquando tamen civis Romanus libertus tamquam Latinus moritur, velut si Latinus salvo iure patroni ab imperatore ius Quiritium consecutus fuerit: nam ut divus Traianus constituit, si Latinus invito vel ignorante patrono ius Quiritium ab imperatore consecutus sit, quibus casibus, dum vivit iste libertus, ceteris civibus Romanis libertis similis est et iustos liberos procreat, moritur autem Latini iure, nec ei liberi eius heredes esse possunt; et in hoc tantum habet testamenti factionem, ut patronum heredem instituat eique, si heres esse noluerit, alium substituere possit.). Il senatoconsulto adrianeo tenne fermo questo principio, stabilendo però al contempo che la riserva dello ius patroni venisse meno se il liberto, dopo il conferimento del ius Quiritium, fosse comunque venuto a trovarsi in una condizione nella quale avrebbe potuto avvalersi della promozione di stato garantita dalla lex Aelia Sentia o da qualche altra fonte autoritativa (Gaius, Inst., 3, 73Et quia hac constitutione videbatur effectum, ut ne umquam isti homines tamquam cives Romani morerentur, quamvis eo iure postea usi essent, quo vel ex lege Aelia Sentia vel ex senatus consulto cives Romani essent, divus Hadrianus, iniquitate rei motus, auctor fuit senatus consulti faciundi, ut qui ignorante vel recusante patrono ab imperatore ius Quiritium consecuti essent, si eo iure postea usi essent, quo ex lege Aelia Sentia vel ex senatus consulto, si Latini mansissent, civitatem Romanam consequerentur, proinde ipsi haberentur, ac si lege Aelia Sentia vel senatus consulto ad civitatem Romanam pervenissent.).
[c] Sempre attraverso il senato, ma in epoca senz’altro preadrianea (arg. da Gaius, Inst., 1, 73Et quantum ad erroris causam probandam attinet, nihil interest, cuius aetatis filius sit --(2 versus)-- si minor anniculo sit filius filiave, causa probari non potest. nec me praeterit in aliquo rescripto divi Hadriani ita esse constitutum, tamquam quod ad erroris quoque causam probandam -- (2½ versus)-- dedit.), una seconda procedura di regolarizzazione familiare venne a sanare le unioni illegittime concluse da alcuni soggetti privi di conubium reciproco. La procedura – nota come erroris causae probatio, in ragione del fatto che il ricorrente doveva provare di non essere stato a conoscenza del reale status proprio o del coniuge – intersecava la lex Aelia Sentia nei casi dettagliati in Gaius, Inst., 1, 68-69Item si civis Romana per errorem nupta sit peregrino tamquam civi Romano, permittitur ei causam erroris probare; et ita filius quoque eius et maritus ad civitatem Romanam perveniunt, et aeque simul incipit filius in potestate patris esse. idem iuris est, si peregrino tamquam Latino ex lege Aelia Sentia nupta sit: nam et de hoc specialiter senatus consulto cavetur. idem iuris est aliquatenus, si ei qui dediticiorum numero est, tamquam civi Romano aut Latino e lege Aelia Sentia nupta sit; nisi quod scilicet qui dediticiorum numero est, in sua condicione permanet, et ideo filius, quamvis fiat civis Romanus, in potestatem patris non redigitur. [69] Item si Latina peregrino, cum eum Latinum esse crederet, nupserit, potest ex senatus consulto filio nato causam erroris probare; et ita omnes fiunt cives Romani, et filius in potestate patris esse incipit. (sui quali, oltre che sulla procedura nel suo complesso, vd. soprattutto C. Terreni, «Gaio e l’erroris causae probatio», in Labeo, 45, 1999, 398-432). In particolare, poteva darsi il caso che una persona si sposasse, nelle forme che la legge richiedeva ai fini dell’anniculi causae probatio, credendo che il coniuge fosse un Latino, quando invece era di condizione peregrina. La condizione peregrina del coniuge rendeva impreocedibile l’anniculi causae probatio (vd. § 2.5.2 lett. [a]). Tuttavia, dando la prova dell’errore (e avendo avuto almeno un figlio, non necessariamente sopravvissuto al primo anno d’età), prole e genitori cui mancasse la cittadinanza Romana potevano conseguirla ex senatusconsulto (cfr. Gaius, Inst., 1, 68, dove si specifica che se il peregrinus sposato per errore fosse appartenuto al dediticiorum numerus, costui sarebbe rimasto comunque escluso dal premio, in applicazione, verosimilmente, della riserva di cui si è detto al § 2.2.1 lett. [b]).
Comment citer cette notice
Luigi Pellecchi. "Legge Aelia Sentia sulle affrancazioni", dans Lepor. Leges Populi Romani, sous la dir. de Jean-Louis Ferrary et de Philippe Moreau. [En ligne]. Paris:IRHT-TELMA, 2007. URL : http://www.cn-telma.fr/lepor/notice9/. Date de mise à jour :19/12/23 .